PROVATE PURE A CREDERVI ASSOLTI, SIETE LO STESSO COINVOLTI

Nei giorni del processo a Filippo Turetta e a quasi un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin proviamo a scomporre il paradigma sociale da cui parte una discriminazione che sfocia spesso in tragedia

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È passato quasi un anno dai fatti dell’undici novembre, la cui risonanza nell’opinione pubblica ha portato a un dibattito attorno alla frase: “Gli uomini sono tutti colpevoli”, tra le più pronunciate in quell’occasione. È importante ricordare le reazioni di una grande maggioranza di uomini a quell’espressione, che accendono un ulteriore campanello d’allarme non trascurabile sull’arretratezza della nostra società. 

Era facile trovare e leggere commenti indignati: c’era chi sosteneva che parlare di colpa collettiva di un intero genere fosse sbagliato e subito alzava un muro a proteggere la sua innocenza di fronte a quelle che considerava delle accuse personali: “Io non sono colpevole, non farei mai nulla di simile, è quello lì ad essere un mostro!”, tuonavano, convinti di aver ben alzato la guardia dalle frecce nemiche. Il timore che le proprie code, chiaramente di paglia, potessero bruciare era più diffuso del desiderio di capire. La paura di entrare nei panni altrui: da qui nascono questi moti di orgoglio maschile, “convinti di allontanare la paura di cambiare”. Non tutti gli uomini possono anche solo pensare di commettere violenza nei confronti delle donne, ma tutti gli uomini si trovano di fronte la possibilità di fare tale scelta: non perché rimangano impuniti di fronte agli atti orribili che possono compiere, ma perché socialmente si è sempre pronti a trovare attenuanti. Quali attenuanti? Di certo non quelle pensate per i casi più noti come stupri o femminicidi, ma di quelle utilizzate per ogni atto di discriminazione quotidiano. Per quell’istruttore in palestra e i suoi commenti inopportuni, per quei ragazzi che impediscono alla fidanzata di uscire con le amiche, per quelli che controllano i telefoni, per le battute in contesti totalmente estranei, per i “Eh chissà come ci è arrivata quella a condurre la trasmissione”, “Chissà come ha fatto a entrare in azienda”, per il desiderio del possesso dei corpi e delle volontà. Questi atti e molti altri, costantemente sminuiti, trascurati o messi in secondo piano, sono gradini; gradini di una scalinata lunghissima che ogni uomo può percorrere, un tragitto che inizia da una battuta inappropriata tra amici e che gradino dopo gradino aumenta di portata, passando per il controllo del telefono, stalking, cat calling, palpata, per arrivare allo stupro o all’uccisione. Aver percorso un gradino o esser stati muti vedendo qualcuno farlo non equivale ad averne percorsi 100; ma sono i gradini a comporre la scalinata, dal primo all’ultimo. Di questo dovrebbero essere consapevoli tutti gli uomini; percepire la responsabilità di condannare i gesti altrui e i propri, anche quelli che sembrano minori: perché non tutti saliranno le scale, ma tutti hanno la possibilità di farlo, e ad ogni gradino ne può seguire uno nuovo. Bisogna spogliarsi delle vesti di dominio patriarcale, dal modello che la società (seppur non sempre esplicitamente) ci pone davanti; comprendere che il dominio degli altri non è forza, ma impotenza a dominare sé stessi e impotenza a educare. Spogliarsi dalla cultura che colpisce anche i colpevoli: perché la figura dell’uomo dominante lo desensibilizza dal suo essere umano, dalle sue emozioni e tenerezze, represse nel nome della potenza di colui che deve predominare. Se invece che prepararsi alla ‘difesa del genere’ si provasse a comprendere che si è tutti vittime e complici pigri di una cultura che finge di aver raggiunto una parità di genere, di una società che pone nella maggior parte dei casi l’uomo come figura di spicco, nei fatti e nelle parole che spesso abbiamo come eredità, allora si potrebbe davvero cominciare a compiere un cambiamento significativo. 

“Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti” –Fabrizio De André. 

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