“Donne si nasce, non si diventa”: il mantra che ultimamente ha scaldato gli animi del Regno Unito

Categorica risulta dunque la decisione presa lo scorso 16 aprile dalla Corte suprema britannica che di fronte alle donne transgender non fa sconti e ammette che per definirsi donna bisogna nascere femmine.

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Secondo i giudici britannici una donna può legalmente definirsi tale solamente se nasce con organi sessuali femminili, scartando completamente il tema dell’identità di genere. Quindi nel momento in cui una donna transgender conclude il suo percorso di transizione e consegue il certificato di riconoscimento di genere, GRC, essa non è  comunque classificabile, al livello giuridico, come donna, poiché geneticamnte non è nata femmina e di conseguenza non gode dei suoi stessi diritti. 

Sembra che questa decisione sia frutto di una controversia risalente al 2018, quando all’interno del parlamento di Edimburgo venne emanata una legge riguardante le “quote rosa”, la quale stabiliva che nei consigli di amministrazione pubblica dovesse esserci un numero di donne pari al 50 per cento, in maniera tale da bilanciare l’altra metà maschile. E tra la grande presenza femminile venne individuata qualche persona trans, chiaramente in possesso del certificato di genere, ottenuto, secondo i criteri stabiliti dal Gender Recognition Act del 2004.Tramite questa visione si tendeva la mano alla legge sul riconoscimento di genere che venne approvata a Holyrood nel 2022, ma successivamente bloccata a Downing Street dal conservatorismo del premier Rishi Suank. A causa di questa proposta di legge il governo scozzese venne portato in tribunale da un gruppo di femministe locali, For Women Scotland, le quali rivendicavano i diritti delle donne che tramite la politica gender friendly subivano una gestione “inquinata” dei spazi e servizi pubblici, come bagni pubblici, reparti ospedalieri, carceri e centri di accoglienza. Le femministe scozzesi hanno condotto una lotta indefessa per farsi valere fino a quando lo scorso aprile tramite la Corte suprema di Londra hanno avuto la meglio. “Sono orgogliosa di voi, i diritti di donne e ragazze sono, ora, protetti.”, così ha commentato J.K Rowling, la scrittrice di Harry Potter, in seguito al verdetto finale che aveva riempito a festa la piazza dinanzi al tribunale e quella di Parliament Square, dove si erge la statua della suffragetta Milicent Fawcett. Sconforto, invece, è quello che si è respirato tra le fila dei sostenitori arcobaleno, che hanno considerato il verdetto come una misura di stampo trumpiano. Anche il primo ministro inglese, Keir Starmer, si è espresso in merito alla sentenza, ammettendo che la Corte inglese abbia voluto chiarire le definizioni di “donna” e “sesso” contenute nell’Equality Act del 2010, legandole esclusivamente al sesso biologico. In passato, però, la pensava diversamente. Nel 2022, infatti, aveva ammesso che “le donne transgender sono donne”.

La sentenza ha indubbiamente sconvolto l’opinione pubblica, creando uno spaccato sociale tra le femministe stesse: c’è chi difende la donna biologica e chi inneggia all’identità di genere, certamente le conseguenze che ne derivano sono innumerevoli e spaziano in diversi ambiti, uno fra i tanti: lo sport. Non ha tardato ad arrivare la comunicazione della Football association, la federazione calcistica inglese, in cui si rendeva noto che dal primo giugno prossimo verranno escluse da ogni competizione le donne trans. Successivamente si sono esposte anche le federazioni di Scozia e Galles imponendo il divieto su tutto il calcio femminile, sia al livello dilettantistico che professionale. In precedenza la federazione inglese ammetteva le donne trans nelle squadre in quanto donne, valutandole secondo alcune regole, come il controllo di testosterone che doveva rientrare in un range specifico per ragioni di uniformità e sicurezza, ora ciò non è più possibile. 

I provvedimenti si sono estesi al livello internazionale, muovendo molti organi di governo che hanno apportato cambiamenti anche in altri sport: nuoto, ciclismo, atletica. Sebastian Coe, il presidente di World Athletics, ha sottolineato la salvaguardia della categoria femminile, poiché uno dei timori più sentiti è quello di una possibile azione legale che si manifesterebbe nel momento in cui una donna biologica all’interno di una gara sportiva venisse ferita da una donna trans. Coe è laconico, “la biologia ha la meglio sul genere”, chiarendo che le donne trans, che hanno superato la pubertà con un corpo maschile, non possono gareggiare con le donne biologicamente femmine, poiché la correttezza viene prima di ogni inclusione. Anche se la sentenza di aprile risulta un vero colpo basso verso le lotte e diritti ottenuti dalle persone transgender, poiché impedisce la libertà di autoproclamazione, è altresì importante evidenziare il dato oggettivo che si presenta sul piano strettamente fisico e che differenzia le capacità motorie di una donna transgender da una donna biologica e che non può essere sottovalutato nelle categorie sportive. Sicuramente l’esclusione non è la soluzione, ma con studi scientifici approfonditi e con valutazioni puntuali si potrebbe certo ottenere una soluzione più democratica e mirata alla salvaguardia dell’inclusione e della lealtà.

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