C’è stata una scena, nelle ultime settimane, che si è ripetuta sempre uguale e che ha avuto come interpreti il sottoscritto e mia madre. Ogni sera ci capitava di sentirci e, tra la disavventura di un parente e il racconto delle proprie giornate, si chiacchierava per una decina di minuti. Matematico, inesorabile, ad un certo punto arrivava il quesito al mio orecchio: “hai letto cos’ha detto Trump?”.
Per un appassionato di politica con la pagina dell’ANSA sempre sottomano, la risposta all’inizio era affermativa, con poi un commento su cosa ci fosse di sbagliato, prima dal punto di vista delle reazioni che avrebbe generato quanto da lui detto o fatto, poi dal punto di vista soggettivo, talvolta con espressioni colorite, altre volte con un senso di rassegnazione non di poco conto.
Ebbene, nelle ultime settimane, alla fatidica domanda che mia madre mi poneva, non sapevo davvero a cosa si riferisse; perdita d’interesse da parte mia? Macché, semplicemente incapacità di riuscire a stare appresso a tutto quello che veniva detto dall’uomo più importante d’Occidente. Al mattino insultava un suo pari dall’altro lato del mondo, per poi la sera dire in un’intervista qualcosa di cattivo gusto contro un altro Paese. Al mattino proponeva dei dazi, poi alla sera quelle cifre erano totalmente cambiate perché, stranamente, qualcuno vi si era opposto e aveva risposto con la stessa moneta.
E mentre il mondo ancora si chiede cosa pensasse di ottenere mettendo a ferro e fuoco l’economia mondiale, è bastato aspettare qualche settimana per vedere quei dazi svanire come neve al sole, eccetto alcuni lasciati lì come monito, vuoi per una moneta svalutata o per un interesse da difendere, seppur indifendibile. Perché alla fine così è andata una volta annunciati i dazi, quando al mattino seguente gli americani si sono svegliati con la consapevolezza che il prezzo di un semplice Pick-Up sarebbe aumentato di una percentuale improponibile per l’americano medio. Lo stesso discorso sarebbe valso per l’iPhone, con prezzi che potevano aumentare del 50% dalla sera alla mattina, con il tentativo disperato annesso da parte di Apple di portarne con aerei cargo quanti più possibile in suolo americano, onde evitare di ridurre al lumicino le vendite del loro principale prodotto.
Nel frattempo The Donald andava in giro per comizi a mostrare i muscoli, dicendo che gli avrebbero baciato una determinata parte del corpo tutti i paesi del mondo per chiedergli la grazia, di ridefinire gli accordi commerciali così da non avere più questa incudine sulla testa. Contemporaneamente i mercati del mondo colavano a picco, con anche quelli di New York che riuscivano ogni tanto a fare l’altalena grazie a nuove dichiarazioni del Presidente a distendere gli animi, o con la posticipazione dei dazi stessi a dare fiato a Fund Managers e Consulenti di tutto il mondo, che poi fossero un qualcosa di simile all’Inside Trading meglio non pensarci. Sta di fatto che, ad oggi, parrebbe essersi messo un punto e virgola a questo scempio economico senza alcun fondamento nella materia, se non dando credito alle idee di qualche corrente inferiore e senza applicazioni pratiche rilevanti.
Il vero problema è che non si può pensare di applicare regimi economici sconvenienti per tutti i propri partner commerciali senza pensare alle conseguenze interne, e questa doccia fredda ha colpito nel portafogli l’elettorato stesso di Trump, gran parte del quale – sondaggi alla mano – sembra sorpreso dagli effetti negativi delle tanto desiderate politiche di quest’amministrazione, ma almeno deluso e non più convinto di avere un incredibile condottiero nello Studio Ovale.
L’economia globale è ora più che mai uno sforzo comune per prodotti finiti che hanno al loro interno troppe bandiere, soprattutto per ciò che riguarda i beni di consumo dei paesi più ricchi guidati dagli Stati Uniti stessi. E in questo scenario, pensare di risolvere i problemi interni riportando produzioni nei confini è pura utopia, sia perché il vantaggio economico dato dal produrre in luoghi con un costo del lavoro ridicolo non si cancella con un decreto Presidenziale, sia perché dall’altro lato non si può pensare di rimanere buoni amici con quegli alleati che colpisci mentre dai loro la colpa di un qualcosa che tu stesso stai generando.
Curioso, poi, come in Italia si stia cercando di disegnare la nostra Premier come l’anello di congiunzione con Washington, quando nemmeno riusciamo a sederci al confronto con Zelensky in casa nostra. Anzi, curioso come a provare a guadagnarsi un posto al dialogo tra Trump e il Presidente Ucraino all’interno della Basilica di San Pietro non fosse nemmeno un esponente del nostro Governo, bensì Macron, dalla prima ora (e forse anche questa sua durata in carica ha fatto mantenere un discreto peso a lui piuttosto che a un esponente nostrano) sostenitore di Kiev in ogni modo possibile. Il fatto che poi non si sia potuto avvicinare su esplicita richiesta di andare “fuori dalle balle” da parte di Trump è relativamente importante, almeno quanto la foto che aveva cominciato a circolare a pochi attimi dall’inizio della messa per il Pontefice venuto a mancare. Si è parlato del primo miracolo di Bergoglio, di diplomazia vaticana sempre sul pezzo, quando poi non si è trattato di nulla di diverso da un nuovo capitolo dell’isteria presidenziale che ha preso posto a Washington da gennaio.
Siamo partiti da un cattivissimo attacco frontale nello studio ovale, dove si è impiegato tempo a parlare di come si fosse vestito Zelensky invece di discutere su cosa fare per fermare il conflitto, il tutto a favore di stampa, per dimostrare ad alleati e telespettatori che quel cambio tanto voluto alle urne era arrivato, in pieno stile Trump. Un uomo d’affari, non uno Statista, seguendo le sue regole che mal si sposano con quelle di mediatore, che stridono con l’idea Statunitense di Potenza Mondiale che ha fatto del mantenimento della pace – anche e soprattutto a suon di guerre, va detto – questione personale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Anche se di facciata, anche se solo allo scopo di mantenere una qualche supremazia economica nei giochi di forza mondiali, l’accomodare gli alleati o il nemico del proprio nemico è stato marchio di fabbrica della Casa Bianca nella storia recente. Con Trump, purtroppo, questo non è avvenuto più.
Basti pensare a Taiwan, che anche durante la campagna elettorale è stato definito “Stato ingrato che riceve difesa dalle mire della Cina a titolo gratuito”, sostegno che sarebbe dovuto diventare a pagamento, perché gli affari sono pur sempre affari. E anche Kiev, ormai è assodato, ha dovuto cedere sulle terre rare per garantirsi forniture militari future, con un accordo siglato proprio a seguito del “miracolo” di Bergoglio. Ecco quindi che la sacralità che si respirava nella foto che ritraeva i due Presidenti faccia a faccia nel tempio più importante del mondo viene meno, a San Pietro non si è fatta la pace, e non per la mancanza di un rappresentante di Mosca, quanto per il vero oggetto di quella chiacchierata: condizioni economiche da discutere per poi chiudere i conti in un secondo momento. Un contratto di fornitura, come quello che chiude un consulente mentre sta al bar sulla spiaggia durante le vacanze con la famiglia, con la promessa di mettere la firma al rientro in ufficio.
E la pace? “Probabilmente impossibile, forse Zelensky e Putin si odiano troppo”, avrebbe detto poi The Donald durante un’intervista. Cosa si aspettava, che sotto sotto fossero due grandi amici che avevano litigato per futili motivi, tipo una fiancata della macchina rigata, oppure qualche parola di troppo detta dopo una cena di gruppo, un insulto volato al calcetto del mercoledì che forse era evitabile? Sarà qualcosa da ricchi, insultarsi e poi bombardarsi a vicenda le proprie città e strutture fondamentali. O forse no, semplicemente sono i Presidenti di due Stati che da decenni – secoli, se pensiamo alla sola Crimea – si fronteggiano per territori e che sin dalla salita al potere di Zelensky sono in piena lotta.
E quindi la pace in 24 ore non si può fare, così come – pare – non si può effettuare una diaspora e liberare Gaza dai propri legittimi proprietari per creare una Las Vegas mediterranea, con un mare decente e speculazione edilizia ben più promettente. Anzi, ci si deve pure preoccupare quando un missile lanciato da un esercito rudimentale come quello degli Houthi riesce a bucare i sistemi di sicurezza sia israeliani che americani, arrivando a colpire l’aeroporto di Tel Aviv. E la gestione di questi conflitti adesso appare più complessa per chi pensava di arrivare e strappare accordi risolutori in un battito di ciglia, come se fossimo a parlare di affari tra una partita a golf e un whiskey a Mar-a-Lago.
E si piange anche internamente, quando il turismo viene a segnare cali di prenotazioni che solo il Covid-19 era riuscito a creare in tempi recenti, oppure quando il simbolo della tua industria automobilistica – Tesla – segna cali nelle vendite tanto grandi da subire il sorpasso di marchi cinesi nelle consegne a livello globale. Per non farci mancare nulla, arrivano anche parole pesanti dall’uomo della finanza per antonomasia, Warren Buffet, che ha approfittato del clamore generato dalla sua dichiarata uscita di scena – alla veneranda età di 94 anni – per dare qualche colpo alla credibilità di quello che dovrebbe essere un altro esperto in materia, seduto alla Casa Bianca, ma che solo danni ha fatto all’economia, per ora.
In America adesso fa paura la parola “recessione”, quasi mai usata da quel lato dell’Oceano, ma chi guida la nave continua a sostenere che così non sarà. L’anno è ancora lungo e vedremo alla fine chi avrà ragione, ma definire i primi cento giorni alla guida degli Stati Uniti d’America “un successo” appare quantomeno fuorviante; Trump, per la cronaca, li ha definiti i “migliori di sempre”.
Se poi economicamente assistiamo a questo scempio, peggio ancora si sta facendo in tutti gli altri teatri di politica estera: tra una difesa delle buone intenzioni dell’AFD in Germania dopo le indagini dei Servizi Segreti di Berlino e il tentativo di esportare il MAGA su scala mondiale, si stanno chiudendo molte porte fino all’altro giorno aperte. Il primo esempio può essere dato dai rapporti con il Canada, secondo il Tycoon futuro cinquantunesimo Stato USA e che ora sono ai minimi storici, con un ritorno in auge di partiti agli antipodi con il Repubblicanesimo che poteva fare comodo a The Donald. Alle elezioni, infatti, i Liberali arrivavano sfavoriti, pronti a concludere con Trudeau un ciclo a cui le forze Democratiche di tutto il mondo avevano guardato con ammirazione. Quelle parole che suonavano come voglia di annessione del Presidente Statunitense, invece, hanno ribaltato un risultato acquisito, al netto dei problemi di maggioranza in Parlamento che si sta cercando di risolvere.
Stessa cosa si può dire dell’Australia, dove i Laburisti erano pronti a loro volta a tornare a casa, ma saranno al Governo per un altro mandato proprio per cercare di mantenersi alla larga quanto possibile da Washington. Unica nota negativa arriva dalla Romania, dove l’Ultradestra ha vinto, ma qui il peso degli Stati Uniti è stato sicuramente minore, se paragonato alla vicina Russia. Qui il problema rischia di essere soprattutto europeo, perché si aggiungerà alla schiera di filorussi un altro Paese entrato da meno di un ventennio nell’Unione Europea, ennesima crepa in un momento delicato per l’esito della guerra in Ucraina.
L’ultimo capolavoro, anche se poi è stato il primo in ordine cronologico, è quello legato alla questione della Groenlandia, da secoli sotto protettorato danese, oggi alla ricerca di un’indipendenza motivata da quelle mire di conquista che più volte sono uscite dalla bocca del Tycoon, che ancora adesso parla di intervento militare per prendere possesso di un territorio oggi parte dell’Unione Europea, domani forse Stato Sovrano.
E tra un’immagine di Trump vestito da Papa twittata dall’Account ufficiale della Casa Bianca e la prossima mossa a sorpresa del Tiranno Democratico, ci si inizia anche a preoccupare della possibilità che ci sia un terzo mandato, totalmente al di fuori da ogni logica costituzionale in America. Il fatto che se ne parli, nonostante questo, ma anche nonostante l’età, non va preso sottogamba. La democrazia è quanto mai oggi un concetto delicato, e soprattutto si fonda su scambi di idee che sembrano essere troppo spesso voci che urlano a orecchie tappate, slogan pubblicitari anche dove ci dovrebbe essere informazione.
Un impoverimento culturale non è mai portatore di pace e prosperità, ma mai come oggi sembra inevitabile. Saranno gli anni ’20 e ’30 a portare male, come insegna la storia del mondo negli ultimi trecento anni, o forse siamo semplicemente alla fine di un ciclo storico che troppo poco abbiamo analizzato per capire come evolverlo in modo costruttivo.
La speranza è quella di vedere sicuramente un nuovo inizio al più presto, senza che si sparga troppo sangue, ma soprattutto che si ristabilisca un ordine mondiale giusto, coeso, e coerente. Tocca solo sperare che questo avvenga a partire da chi pretende di dare la direzione lì, a Washington.
Ciò che mi sconforta di più al momento non è l’imperialismo putiniano o la megalomania trumpiana, in fondo ce l’aspettavamo, non proprio a questi livelli, ma era prevedibile. Ciò che urla alle mie orecchie in questo momento è l’assoluto silenzio dei cittadini americani (e non solo) ancora dotati di una coscienza democratica.