Il caso Cecilia Sala: un sequestro enigmatico

Cecilia Sala, giovane giornalista romana, in seguito a un’inchiesta svolta nel territorio di Teheran, è stata arrestata con l’accusa di non aver “rispettato le leggi della Repubblica Islamica”.

0
1364

L’arresto, avvenuto lo scorso 19 dicembre, ha destato fin da subito molte controversie, poiché oltre alla motivazione della violazione delle leggi islamiche non sono giunti altri dettagli. Se non che pochi giorni prima, in Italia, si era verificata la detenzione di Mohammad Abedini, un ingegnere iraniano che era stato catturato su mandato degli Stati Uniti all’aeroporto di Malpensa con l’accusa di fornire componenti per droni all’Iran. Risulta dunque scontato fare un paragone tra i due casi e costruire ipotesi su un possibile intreccio tra i due arresti, giungendo alla conclusione che probabilmente l’Iran abbia reso Cecilia Sala uno strumento di diplomazia politica. 

La giornalista, che nonostante la giovane età, si è distinta per aver intrapreso indagini intricate con precisione e serietà come la crisi in Venezuela, le proteste in Cile, Kabul in mano ai talebani e la guerra in Ucraina, raccogliendo la stima di molti nel mondo del giornalismo di esteri. Era giunta in Iran per raccogliere del materiale importante per il podcast quotidiano “Stories”, di cui era autrice e conduttrice. Il 16 dicembre, pochi giorni prima dell’arresto, aveva pubblicato il suo ultimo lavoro dal titolo “Una conversazione sul patriarcato a Teheran”, in cui descrive il colloquio avvenuto con una giovane donna iraniana, Diba, sulla nuova legge dell’hijab.

Esattamente tre settimane dopo l’arresto, l’8 gennaio scorso ha potuto finalmente lasciare la prigione di Evin ed essere libera. Poco dopo il suo rientro in Italia è stata ospite da Fabio Fazio, nel programma Che tempo Che fa, e proprio lì ha ammesso: “L’ultimo interrogatorio prima della mia liberazione è durato dieci ore di seguito, con brevi pause e incappucciata. C’è stato un momento in cui sono crollata e mi hanno dato una pasticca per calmarmi.” Sala descrive le condizioni in cui si trovava nel momento degli interrogatori che risultavano assidui e logoranti, rinchiusa in una cella isolata senza neppure un letto dove poter lenire la propria disperazione, con la paura più grande di poter impazzire. 

Analogamente alla vicenda di Cecilia Sala si lega la storia di Giulio Regeni, giovane triestino che dal settembre del 2015 era giunto in Egitto come dottorando dell’Università di Cambridge. Il 25 gennaio del 2016, il 28enne italiano viene rapito al Cairo, come ultimo riferimento si ha una chiamata che Regeni avrebbe rivolto al suo tutor Gennaro Gervasio la sera stessa, per accordarsi sulla cena, da quel momento in poi il cellulare risulta spento. Dopo aver attivato le ricerche, in seguito alla denuncia di sparizione, il 3 febbraio il corpo di Giulio viene ritrovato esanime, nudo e mutilato con un veemenza inaudita, sul bordo di un’autostrada. In un primo momento le autorità egiziane, che avevano dato il loro pieno sostegno a collaborare con le indagini, muovono una prima ipotesi e parlano di incidente stradale, poi utilizzano nella seconda ipotesi l’espediente personale, citando uso di stupefacenti e una presunta relazione omosessuale. La verità è che la collaborazione che avevano così espressamente garantito non è stata rispettata, dal momento che tutti i dati utili per l’indagine, come i tabulati telefonici e le riprese delle videocamere di sorveglianza, non sono stati ricevuti in Italia. 

Tanto Regeni quanto Sala sono esempi di verità mutilata e di violenza gratuita, perché non sono emersi dettagli di nessun genere che possano giustificare il loro sacrificio. La ricerca e l’informazione non possono essere le cause che diano diritto a mettere fine alla vita di una persona.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il commento!
Inserisci qui il tuo nome