Prima di tutto, che cos’è un fumetto? La domanda può sembrare retorica ma la sua risposta presenta sfaccettature intriganti e non scontate. L’impiego di arte figurativa in sequenza con fine narrativo, alle volte accompagnata da elementi testuali, ha origini intrecciate con la storia dell’uomo: le pitture rupestri, le colonne coclidi romane, l’arazzo -che arazzo non è- di Bayeux, le satire di costume inglesi di Hogarth, sono solo alcuni esempi della stratificazione storico artistica che forma il retroterra culturale del fumetto; che per quanto abbia nella sua contemporanea realizzazione delle chiare e relativamente recenti origini, ha una componente immortale e iscritta all’animo umano.
Per come lo conosciamo oggi, il fumetto nasce con alcune tavole del disegnatore statunitense Richard Felton Outcault pubblicate a partire dal 1885, rappresentanti bizzarri personaggi satirici. Tra questi, protagonista indiscusso, un bambino, completamente calvo, dalle grandi orecchie e con indosso una gonfia camicia giallo canarino: Yellow Kid. Le parole del ragazzino, racchiuse dentro ad una nuvoletta bianca che gli esce dalla bocca, sono la caratteristica che permetterà successivamente di individuare in quei disegni i primi fumetti contemporanei; d’altronde, l’espressione italiana “Fumetto” e quella inglese “Balloon” stanno ad indicare proprio questo. Se dapprima tali sequenze di immagini erano relegate alle appendici dei giornali, con il passare dei decenni cominciarono ad acquistare spazio sempre maggiore, a crescere di durata e profondità, sino a mutare da piccoli sketch in grandi storie, raggiungendo l’indipendenza e la forza necessarie per diventare un medium a sé. In America i comics, che devono il nome alle prime vignette comico satiriche, divennero un importantissimo strumento di propaganda durante la Seconda guerra mondiale, per poi esplodere definitivamente tra gli anni ‘50 e ‘60. In Italia si mostrarono al grande pubblico attraverso il Corriere dei piccoli e riviste come L’Avventuroso –nata negli anni ‘30 e poi riesumata nella seconda metà del ‘900, quando anche qui i fumetti divennero un fenomeno di massa-; poi, con il grande fervore degli anni ‘60, case editrici come Mondadori e Rizzoli arrivarono a dedicare gran parte della loro produzione al fumetto e successivamente anche realtà più piccole si affacciarono a questo mondo, come il mensile Corto Maltese, giornale interamente dedicato al fumetto d’autore. La Francia, con opere come Barbarella contribuì a cambiare il mercato, indirizzandolo verso un pubblico esclusivamente adulto e in direzione del lusso. Scrive Manfredo Guerrera nel suo saggio Storia del fumetto del 1995:
“…diventa, con il cinema e la televisione uno dei più diffusi fenomeni di massa, rivelando al contempo la sua natura polimorfa, valida e buona per tutti.”
Da questo punto di vista si può indubbiamente affermare che il fumetto è figlio del ‘900, ne è pura rappresentazione: opera dalla tecnica mista, divisa tra pittura, letteratura e cinema, nel suo movimento e novità; nuova e con radici antiche, popolare; una via di mezzo, transizione che è pieno specchio di una storia che stava cambiando al ritmo incessante del consumo, dei movimenti anti-consumo, dello sviluppo tecnologico e di quello culturale. Questa natura plurivalente è forse stata la sua grande fortuna e sfortuna. Fortuna perché ha consentito al medium di adattarsi a molteplici esigenze e variabili: basti pensare alla radicale differenza tra l’erotismo dei personaggi di Manara, la comicità di Asterix e Obelix, la fantascienza di Flash Gordon e i comics supereroistici americani; ma anche sfortuna, poiché il suo polimorfismo si è concretizzato in singole categorie che hanno abusivamente occupato l’immaginario collettivo. Una caratteristica simile porta necessariamente il mercato a finanziare quelle determinate opere che fruttano di più, a discapito delle altre. Si tratta dello stesso fenomeno che caratterizza il cinema contemporaneo, con una differenza tuttavia cruciale: il cinema popolare, ancora oggi, rende. Ed è qui che cominciano a nascere i problemi per il mondo del fumetto, che è divenuto tra le forme espressive più sottovalutate. È sì figlio del ‘900, ma ne è anche orfano: per nulla considerato dalle nicchie intellettuali delle arti secolarizzate -pittura e letteratura su tutte- e allo stesso tempo incapace di restare sulla cresta dell’onda come fenomeno popolare, totalmente soppiantato dal cinema e dalla televisione negli ultimi decenni.
In questa edizione del Romics il fumettista e insegnante alla scuola internazionale del comics di Roma Mauro Talarico, che ci ha concesso il piacere di porgli qualche domanda, così ha risposto sul tema della sottovalutazione del fumetto come forma d’arte:
“Devo dire che invece ci sono dei fenomeni come Zerocalcare che hanno portato il fumetto a competere anche con la narrativa, ad essere letto anche da persone che in genere col mondo del fumetto non hanno assolutamente niente a che fare. Per il resto secondo me è più un fatto di scarsa conoscenza, perché il fumetto presenta delle storie estremamente godibili anche per un pubblico intellettuale.”
E ancora, alla domanda circa il perché di questa tendenza:
“In Italia ha sempre un piccolissimo spazio nella conoscenza della gente. Adesso per esempio Zerocalcare ha sfondato e quindi viene veicolato in tutte le trasmissioni, viene citato a proposito e a sproposito; quindi si è conquistato anche uno spazio in quei canali che solitamente relegano il fumetto alle storie di Topolino, alle cose di quando eri piccolo. Purtroppo, manca appunto la conoscenza: perché probabilmente mancano proprio gli appassionati anche nel giornalismo, cioè persone che vadano a cercare le storie.”
Nessuno cerca più le storie, sicuramente non più nel mondo del fumetto, rimasto schiacciato in una posizione ambigua: quella di medium di stampo popolare senza più popolarità. Lo stesso Zerocalcare, citato da Talarico, è riuscito a “sfondare” tra il grande pubblico non grazie alle sue vignette, ma con la serie TV targata Netflix Strappare lungo i bordi. Il settimanale più famoso d’Italia nella seconda metà del ‘900, Topolino, negli anni ‘70 arrivava ad una tiratura di oltre un milione di copie, oggi non supera le cinquantamila. E con i riflettori spenti verso l’intero settore, anche i grandi fenomeni autoriali svaniscono: restando sull’Italia sarebbe impensabile immaginare autori del calibro di Pratt, Crepax o Manara nel panorama attuale. Oggi vendono quasi di più le reliquie di quell’epoca d’oro che le nuove uscite, basti pensare che recentemente una tavola acquerellata di Corto Maltese è stata venduta all’asta per trecento quindicimila euro. Ciò non significa che non si possano ancora trovare grandi opere d’arte di genere nel 2024, ma piuttosto che quandanche queste nascano si tratti di casi sparuti a cui si presta una minima attenzione. I disegnatori di oggi, specialmente in Italia -fiore all’occhiello della decadenza del settore-, per poter lavorare sono spesso costretti a guardare ai grandi editori esteri che ancora riescono a produrre.
Così Mauro Talarico riguardo al tema dell’esterofilia presente nella nuova generazione di fumettisti:
“Dipende. Certo il fatto che il panorama italiano non sia così florido spinge sicuramente ad andare a cercare altri mercati, anche perché le possibilità narrative che ti offrono sono maggiori rispetto a quello che ti offre il fumetto italiano.”
Si può dire che quello del fumetto italiano è un problema nel problema: il grande rallentamento nella produzione che ha colpito tutto il settore -tranne forse il Giappone che però rimane un caso a sé, in quanto il fenomeno dei Manga prodotti in massa è una novità degli ultimi decenni dovuta a fattori differenti- ha colpito ancora più duramente il sistema italiano, che ha subito un contraccolpo durissimo, scivolando in un parziale dimenticatoio.
Ci dice Mauro Talarico dalla cornice del Romics sulla poca considerazione del fumetto italiano nel mainstream:
“Dipende, qui a Roma forse sì, perché c’è una preponderanza di manga assoluta e tutto il resto è minimale. Nel resto del panorama diciamo che lo spazio che c’è per il fumetto italiano è molto parziale proprio perché anche la produzione è diminuita tantissimo. Se leviamo quelli che lavorano fuori, dei prodotti italiani si è ristretto molto il campo.”
Fiere come questa sono, in fin dei conti, un grande miscuglio di elementi. La prima cosa che salta all’occhio girando tra i padiglioni è la confusione, non solo fisica ma anche tematica: videogiochi, peluche e pupazzi, armi giocattolo e cosplay. Il fumetto è chiaramente un elemento rappresentativo di questi eventi, ma da solo non è in grado di trainarli e per non sfigurare e rischiare di attrarre meno pubblico si è dovuto legare al mondo dei videogiochi, a quello di un certo tipo di cinema e televisione e, più in generale, alla cultura impropriamente definita “Nerd”. Cosa rimane dunque oggi di un medium così importante? Rimane una grande arte del secolo scorso, presa in considerazione quasi solo da una nicchia di appassionati; un elefante nella stanza, come direbbero gli anglosassoni, spesso ignorato da quegli strati di popolazione incapaci di uscire dai confini di una certa concezione dell’arte, che comprendono non solo chi ha pretese intellettuali ma anche coloro senza effettiva conoscenza del settore; un importante figlio del Novecento, oggi spaesato e vagabondo nella connettività inafferrabile di quest’epoca. Superata ormai la popolarità di un tempo, in questi anni duemila nei quali la fama dei medium è strettamente legata alla passività del pubblico, che subisce le immagini che gli scorrono davanti incapace di azioni attive, al fumetto sarebbe dovuta spettare una ricompensa nella considerazione artistica generale, ricompensa però mai arrivata. La porta gli è stata chiusa davanti da coloro che non erano in grado di vedere i picchi profondissimi raggiunti dai vari Pratt, Moore, Spiegelman, Miller, Jodorowsky e tanti altri, ma solo frivole storie per ragazzi, divertenti o avventurose. Come già detto il fumetto è orfano di un’era precisa, ma non è morto e non smetterà in ogni caso di regalare belle opere nonostante l’arrancare del settore, perché gli artisti e i cultori non cessano di esistere. Nessun momento è sbagliato per appassionarsi a qualcosa. Viviamo in un mondo dalla conoscenza sempre scontata, a portata di mano, distante solo una ricerca su Google, e proprio per questo mai esplorata con attenzione e curiosità. Molte idee che compongono la costellazione delle nostre concezioni culturali originano dal sentito dire e da miti sociali, più che da un effettivo e pieno sapere. Proprio per questo motivo è importante non fermarsi di fronte a pregiudizi e convinzioni, provenienti da chissà dove, ma ricordare che la conoscenza deve essere ricercata e che forme che non abbiamo mai preso seriamente in considerazione possono rivelarsi spesso le più interessanti e ricche di spunti; non in comparazione con altri paradigmi artistici, ma come movimenti a sé stanti. Bisogna, citando Talarico, tornare a “Cercare le storie”, senza focalizzarsi sui medium che le veicolano ma solo sulla bellezza della loro espressione, sul loro modo, ogni volta unico, di essere arte.