Musicoterapia: guarire tramite le note

Tra le forme di comunicazione, quella che avviene tramite il suono è una delle più intime, perché non si riesce a comunicare solo agli altri, ma anche e soprattutto a se stessi.

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La musica è da sempre una delle forme più elevate di arte, una poesia scritta su un pentagramma. La bellezza di cui è costituita, nel tempo, ha catturato l’attenzione del suo pubblico, poiché da essa si sono ricavati innumerevoli giovamenti: si potrebbe definire come un elemento decorativo dell’anima. Proprio per questo non è stato difficile sceglierla come terapia per combattere il dolore. 

La prima volta che si parlò di musicoterapia fu nel 1748, quando un medico musicista londinese pubblicò un trattato inerente proprio a questa tematica. Molto spesso è sempre aleggiata molta confusione intorno a questa disciplina, perché non si è mai fatta chiarezza sul suo aspetto più strettamente scientifico, anche per il fatto che il riconoscimento professionale è arrivato molto tardi. Per cercare quindi di trovare una chiave di lettura più nitida, si useranno le parole di Francesco Scalabrella, musicoterapeuta, legato professionalmente a Comusic, la scuola di musica situata a Roma, nel quartiere Coppedè, in via Oglio 7a.

Quando si parla di musicoterapia, nello specifico che cosa si intende?

“Bisogna dire che è un mondo molto vasto, esistono molti approcci e diversi tipi di musicoterapia. Di fondo è una pratica che usa delle tecniche basate su metodologie e teorie di riferimento che utilizzano la musica con tutte le sue componenti di suono come mezzo mirato ad incentivare lo sviluppo e il cambiamento sia fisico che psicologico di un individuo”.

Quanti tipi di musicoterapia esistono?

“Effettivamente esistono due grandi aree: la musicoterapia passiva e quella attiva. La prima si basa sulla ricezione che sfrutta la tecnica dell’esposizione a diversi tipi di suono e frequenza. Questo tipo di approccio viene utilizzato soprattutto in medicina, perché la musica ha particolari effetti sui neuroni, sulle cellule e sui sistemi ricettivi dell’individuo. Per esempio Mozart viene spesso ascoltato nelle sale operatorie, in sostituzione o in aggiunta delle sedazioni. Mentre per quanto riguarda l’approccio attivo si ha un coinvolgimento in prima persona del paziente/utente sulla performance, il quale partecipa agli incontri tramite la sperimentazione degli strumenti musicali, ciò è legato al mondo della psicoanalisi e della psicodinamica che coinvolge l’aspetto cognitivo-comportamentale dell’individuo”.

Qual è l’approccio più vicino al mondo di cui lei si occupa?

“L’approccio con cui lavoro è un approccio che si chiama intersoggettivo e che viene dalla teoria di due professionisti: Rolando Omar Benenzon e Daniel Stern, entrambi psichiatri e psicoanalisti. Essi hanno teorizzato un modello all’interno del quale tutto viene comunicato tramite il suono. La base della teoria sono tecniche che consistono nel riprodurre un dialogo sonoro, ovvero traslare sul piano sonoro quello che normalmente sarebbe la relazione che si svolge sul piano verbale. Sostanzialmente non si parla, o meglio, si parla poco per poi interpretare quello che è accaduto al livello sonoro. Questo si utilizza molto in ambito di neurodiversità. Io lavoro molto con lo spettro dell’autismo perché molto spesso in queste situazioni il piano verbale è latente o comunque problematico. Così la comunicazione sul piano sonoro contribuisce a strutturare delle relazioni che prevedono possibilità di incremento di alcuni parametri importanti: l’attenzione congiunta e la comunicazione oculare. Gli strumenti musicali che vengono impiegati sono molto personalizzati a seconda dell’esigenza, solitamente si prevedono strumenti di matrice di Orff e Gordon, due illustri didatti, molto utilizzati nella fascia infantile. Generalmente si tratta di percussioni di vario tipo: djembe, congas, xilofoni, proprio perché le percussioni sono il primo step accessibile a chiunque, però io utilizzo molto anche il pianoforte, la chitarra e a volte la batteria”. 

Quali sono i soggetti a cui è rivolta questo tipo di terapia?

Normalmente la musicoterapia è aperta a tutti, senza far riferimento all’età o al quadro clinico. Quello che differisce sono gli approcci e gli obiettivi. Infatti mi capita di lavorare con tutte le fasce d’età, chiaramente la fascia dell’infanzia è privilegiata, ma per il fatto che per tutti gli interventi mirati allo sviluppo della neurodiversità, prima si interviene e più ci sono margini di miglioramento. Lavorare con la musicoterapia attiva tramite il dialogo sonoro aiuta i più giovani a formarsi, tramite le tecniche di sintonizzazione che partono dall’imitazione reciproca che ricalcano le dinamiche che avvengono nelle prime fasi di vita tramite l’interazione con la mamma o il papà. L’attività che si fa, invece, con soggetti molto più grandi ha scopi diversi: mantenere le competenze che sono già presenti. La musicoterapia infatti si utilizza anche molto con l’Alzheimer e la demenza senile, puntando sulla memoria a lungo termine, incrementando i ricordi per mantenere una percezione di se stessi e della propria vita. Anche nel coma viene impiegata e in tutti casi di riabilitazione, come per gli ictus: quando si deve recuperare il coordinamento la presenza della musica con la sua cadenza e il suo ritmo aiuta molto”. 

Quali sono dunque i benefici della musicoterapia? 

“Dipende dai casi. Generalmente i benefici sono molti ed esistono sul piano fisico e su quello emotivo. Nel primo caso bisogna dire che sono presenti nella nostra corteccia cerebrale aree che sono settorializzate, come per il linguaggio, per il movimento, e l’attività musicale crea delle connessioni tra queste aree specifiche, le quali sono stimolate particolarmente dalla musica, intesa come un’attività singolare che non si ripete in nessun altro caso. Le connessioni che la musica crea tra queste aree diventano una riparazione, si formano così delle strutture supportive che intervengono in caso di danneggiamente di quelle aree lesionate. Questo avviene per quanto riguarda la riabilitazione e allo stesso modo accade per quanto riguarda l’aspetto emozionale, ovviamente dipende sempre dalle motivazioni. Per esempio nell’autismo c’è una forte presenza di stereotipie, che sono movimenti ripetuti di qualsiasi tipo che sono spesso correlati a stati di ansia e agitazione elevati. Esse possono essere riprodotte sugli strumenti riuscendo così a scaricare le emozioni negative in gruppo e ciò conduce a un maggiore controllo delle emozioni. In situazioni normotipiche, invece, la musicoterapia apre un contesto legato alla psicoterapia”. 

Avendo un forte legame, qual è il rapporto tra la musicoterapia e la psicoanalisi? 

“La questione è molto intricata e gigantesca. Esistono problematiche legate alla politica e alla burocrazia. Si fa sempre confusione tra le due, perché è confusa la base. Premetto che nelle altre parti del mondo, come la Danimarca, la Gran Bretagna ed entrambe le Americhe non è così. In Italia abbiamo un problema immenso: non scorre buon sangue tra il mondo della musicoterapia e quello della psicologia, il che risulta essere un enorme ostacolo dal momento che molti approcci della musicoterapia derivano in realtà dalla psicologia. Oggi purtroppo ci troviamo nella situazione in cui le formazioni in musicoterapia, che finalmente dal 2020 sono state riconosciute istituzionalmente tramite un percorso di laurea magistrale, purtroppo sono insufficienti per formare un musicoterapeuta. A questa laurea accedono i triennalisti che derivano dal conservatorio oppure degli psicologi. In ogni caso c’è una mancanza perché un musicista non è sufficientemente preparato in psicologia e viceversa lo psicologo non è in grado di fare musica. Soprattutto questo corso di laurea nei conservatori non è stato organizzato con facoltà di psicologia, ma con facoltà di psichiatria, la quale guarda il mondo della musicoterapia come una specie di chimera o come qualcosa ancora da dimostrare. Due mondi distanti completamente. Cosa che, invece, non avverrebbe con la psicologia, dal momento che la musicoterapia condivide circa il novanta per cento dei suoi assunti teorici”. 

Dal momento che negli ultimi anni è stata inserita all’interno di molti istituti la figura dello psicologo, come la vede lei l’introduzione del musicoterapeuta nelle scuole? Potrebbe essere un mezzo che serve ai ragazzi per sensibilizzare l’empatia e il rispetto reciproco? 

“La musica e la musicoterapia offrono degli strumenti alla psicologia stessa, il connubio tra le due risulterebbe quindi molto interessante. Pensare di inserire la figura del musicoterapeuta nelle scuole al momento appare come “fantascienza”. Nelle scuole vengono presentati dei progetti legati alla musicoterapia, a cui io stesso partecipo, ma sono difficili da far accettare e presentare, perché mancano le strutture adatte e la strumentazione. Molto spesso manca anche la comprensione da parte degli istituti e da parte dei docenti su quello che si fa, quindi manca a monte una conoscenza su quelle che sono le potenzialità e la bellezza della musicoterapia“.

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