La nostra intervista a Caterina Caselli: “L’unicità è la caratteristica più importante per un artista”

Colonna portante della storia della musica nostrana, la cantante e produttrice modenese ci ha parlato dell'evoluzione del mondo della canzone negli ultimi anni, rispetto alla seconda metà del '900.

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L’industria musicale al giorno d’oggi viaggia su un’autostrada senza limiti di velocità, nuove composizioni vengono diffuse attraverso i canali di streaming con una rapidità che arriva quasi a nascondere apparentemente il mezzo di diffusione, stabilendo un rapporto diretto tra artista e ascoltatore. Lo sviluppo di questi mezzi e i mutamenti del mercato musicale hanno cambiato metodi e tempistiche della produzione dei brani, a discapito della cura autoriale e dell’unicità. È questo il focus della nostra intervista a Caterina Caselli, icona della musica italiana sia da interprete che da produttrice discografica. Una carriera all’insegna dell’innovazione e della scoperta del talento, si devono a lei gli esordi di artisti come Francesco Guccini, Andrea Bocelli, i Negramaro, Elisa e tanti altri che hanno scritto pagine importanti della storia della musica del nostro paese.  

Lei è stata parte integrante e fondamentale dell’epoca in cui la canzone italiana ha raggiunto il suo apice. C’è una parte del pubblico attuale che prova un sentimento di nostalgia, ritenendo gli artisti contemporanei non all’altezza dei loro “padri”. Lei come si posiziona in questo dibattito e che giudizio ha del periodo che sta vivendo la musica italiana? 

“Come sempre, non si può generalizzare. Quest’ultimo periodo ci ha fatto conoscere alcuni artisti che a me personalmente non piacciono, ma la musica pop deve avere il linguaggio del periodo in cui si esprime. Indubbiamente c’è un’omologazione della musica che ascoltiamo attraverso le piattaforme, strumenti che dieci anni fa non esistevano. Una volta la musica non era liquida come oggi. Mi ricordo delle estati in cui uscivano dei brani come Abbronzatissima e I Watussi che avevano come arrangiatore il signor Ennio Morricone. È evidente che oggi non sia più così, c’è stata una grande rivoluzione. Ci sono stati anche dei brani firmati da Franco Battiato, come Un’estate al mare di Giuni Russo, che potevano essere definiti dei tormentoni, ma certamente erano di grande livello. Quando ero ragazzina mettevamo da parte i soldi per comprare il disco e ce lo ascoltavamo insieme, era un momento importante anche per scoprire cose nuove. Oggi c’è grande offerta grazie allo streaming, che da un lato ci porta a riscoprire tanta musica che altrimenti dimenticheremmo, o resterebbe nascosta nei nostri cassetti della memoria. Possiamo anche ascoltare con facilità i grandi musicisti del passato, e questo è sicuramente un grande vantaggio. Indubbiamente anche il modo di comporre oggi non è più lo stesso. Si dice che prima ci vuole l’ispirazione, poi per finire il brano serve il lavoro. Oggi alcuni compositori – chiamiamoli così – utilizzano dei brani che ascoltano come se fosse uno share: prendono qualche battuta da uno piuttosto che dall’altro e assemblano dei pezzi che sono di facile lettura, perché li abbiamo in una parte della nostra memoria. Una volta conducevo un programma radiofonico e dovevo raccontare come nascevano le canzoni, chiedendo proprio ai compositori più noti. Paolo Conte mi raccontò che Azzurro era nata in venti minuti, mentre altre canzoni erano state pensate e ripensate. Chiamai anche Ennio Morricone e gli chiesi cosa bisognasse fare per comporre un brano. Lui mi rispose che prima bisogna fare il conservatorio – quindi otto anni di studio –, dopodiché serve conoscere la storia della musica, capire come lavoravano certi grandi compositori, e solo dopo ti renderai conto di quali sono coloro con cui hai più affinità e sarai in grado di poter comporre”. 

Lei è divenuta celebre come interprete. Se ha mai scritto un brano, come lo ha fatto? 

“L’unica canzone che scrissi fu Incubo n. 4, che fu in realtà ispirata da un testo di Francesco Guccini. La musica era molto easy, la suonavo con la chitarra tra un concerto e l’altro quando ero più giovane. Non sono mai stata una compositrice, sono sempre stata attratta dalle canzoni che scrivevano gli altri per me”. 

Se prima, come ha detto lei, si acquistava il disco in vinile dell’album per ascoltare i brani, oggi invece il formato prediletto è quello dei singoli. 

“Devo dire che pure negli anni Sessanta era così, anche se non allo stesso modo. Adesso ogni giorno escono almeno un centinaio di nuove produzioni in Italia, e nel mondo forse anche 100.000. Una volta c’era di più il tempo pensato, la parola pensata, si cercava di comporre senza questa velocità. C’era più senso critico. Mi ricordo che nel ‘66 cantai Nessuno mi può giudicare e che dopo tre mesi occorreva fare un nuovo brano possibilmente migliore di quello precedente. Uscivamo con quattro singoli all’anno, e alla fine si faceva la compilation delle canzoni e si pubblicava l’album. Questo sistema valeva per coloro che non erano cantautori, parliamo del periodo pre-cantantautorale. Poi invece le case discografiche, la RCA soprattutto, investirono molto sui cantautori, su album che erano opere molto più articolate. Spesso si aspettavano tre o quattro anni, prima di ascoltare qualcosa di nuovo”. 

Nel film dedicato alla sua carriera (“Una vita, 100 vite”), parlando della nascita di Perdono lei spiega la variazione del titolo dall’originale Io chiedo perdono facendo notare un’incoerenza con quello del precedente successo, Nessuno mi può giudicare. Questa cura e attenzione per le parole, per il significato che si vuole veicolare, sembra essersi persa negli ultimi anni. È d’accordo? 

“Oggi è un po’ come se ci si dimenticasse facilmente di quello che si è fatto. Ci sono artisti che sono coerenti e altri un po’ meno, ma questo devo dire che è sempre stato così. Ora è tutto fatto con grande velocità, tutto si adegua ai cosiddetti tempi televisivi. Faccio una metafora che riguarda il rapporto con la natura: oggi si pretende di impiantare un ulivo e dal germoglio avere subito le olive, mentre invece ci vuole il tempo giusto per poter maturare e realizzare quelle cose”. 

Nel 1977 fonda l’etichetta Ascolto, con il proposito di scommettere su nuovi talenti e di sperimentare. La scommessa e l’esperimento dove si possono trovare oggi nel mondo musicale? 

“Noto una certa attenzione e innovazione nel mondo della musica elettronica, che un tempo era chiamata musica contemporanea, dove anche Ennio Morricone operò con la musica assoluta, Petrassi, Dallapiccola, Berio… Erano grandi compositori che sapevano perfettamente cosa fosse uno spartito e cercavano nuovi orizzonti. In questo ambito verifico una capacità di osare, di avere coraggio e di affrontare una composizione che in passato era considerata per pochi, anche grazie alle nuove possibilità di divulgazione attraverso le piattaforme. Composizioni apparentemente non così facili possono usufruire di una possibilità di racconto e di narrazione attraverso l’esperienza di questi compositori che spesso e volentieri hanno delle storie meravigliose da raccontare. Strumenti come podcast e docufilm possono raccontare vite molto interessanti e far passare questa musica che non è di primo apprendimento, riuscendo a farla accettare e ad essere fruita non dico come la mainstream.  

Nella musica ci sono i cicli spesso e volentieri, e io credo che prima o poi troveremo un’artista vero, sincero, magari molto diverso da ciò che ascoltiamo normalmente. Naturalmente deve trovare le persone che investano su di lui, come hanno fatto con me. Io penso che ci sia margine per ascoltare qualcosa che sia fuori dal normale, purché ci siano sincerità e unicità. L’unicità è la cosa più importante. Ovviamente non è sufficiente, ci vuole personalità, determinazione, umiltà e quindi ascoltare anche gli altri”. 

Le voci degli interpreti di oggi possono essere penalizzate da questo metodo di composizione dei brani? Penso ad Annalisa e Angelina Mango che hanno un potenziale straordinario. 

“A monte ci sono delle decisioni, si può scegliere un brano che non metta a disposizione tutte le tue capacità vocali, facendo però una scelta obiettiva di mercato. La carriera di un artista si presume che sia duratura, per cui c’è sempre tempo per esprimere le proprie doti. Io penso che Annalisa sia un’ottima cantante, l’ho sentita cantare brani molto impegnativi, però credo ci sia da parte sua anche il desiderio di fare delle canzoni più popolari, di facile presa. Angelina è anch’essa un’ottima cantante, ha mangiato pane e musica da quando era piccolina, la madre era una grande musicista, oltre al padre che conosciamo tutti. Non mi stupisce, lei ha molte possibilità per cantare. Personalmente sono stata molto legata ad Elisa, la trovo un’artista a tutto tondo che potrebbe essere un’ottima artigiana, nel senso che può fare tutto ciò che è relativo alla produzione di un’opera. Anche Raphael Gualazzi è molto bravo, un grande musicista, non così mainstream come le persone di cui ho parlato prima, ma molto colto dal punto di vista musicale. 

Sono artisti che hanno espresso il loro potenziale. Come Elisa penso anche a Giorgia… 

“… sono artiste che hanno anche una grande tecnica vocale, questo va sottolineato”. 

Caterina Caselli predica dunque la necessità di recuperare una musica artigianale, sulla quale il tocco dell’artista possa avere un effetto quasi magico che la renda unica e diversa. Il musicista come l’intarsiatore, che con la lama possa trarre una forma inimitabile da un semplice ciocco di legno.

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