Lo sport per i ragazzi è da sempre un punto di incontro per abbattere le differenze sociali e dare un colore vivace alla diversità. Perché prima ancora che per la forma fisica, lo sport si fa per formare la nostra mente. Questo è lo scopo di Integra Sport, un’associazione sportiva, voluta dalla dottoressa Nisi, che invita i ragazzi ad allenarsi, divertendosi, senza prendersi troppo seriamente.
La disabilità nei giorni nostri è una delle vittime principali di discriminazioni e ingiustizie. Questo andamento è giustificato dal fatto che i disabili vengono considerati dei soggetti fragili e indifesi, quindi facili prede del bullismo tra i giovani. Ma l’associazione sportiva Integra Sport, situata a Monterotondo, non la pensa così. Il suo scopo è quello di eliminare l’etichetta di “fragili”, e in generale di tutte le etichette possibili in nome dello sport. Perché è proprio lì che risiede l’arma segreta per combattere le voragini sociali. Quando si gioca a calcio, ad esempio, lo si fa in una squadra, dove tutti hanno il diritto di giocare e il dovere di vincere, o comunque di provarci. A questo punto la disabilità diventa una caratteristica come un’altra, e i ragazzi disabili possono così vivere la vita che tutti gli altri hanno sempre condotto, con estrema naturalezza e con la consapevolezza che quando si è giovani non esiste diversità che possa spegnere il divertimento. L’essenza di questa intervista ad Enrica Nisi si basa proprio nel dare valore alla generosità dello sport.
In quanto fondatrice e presidente onorario dell’associazione Integra sport di Monterotondo, cosa ci può dire in merito all’origine del progetto e alla sua evoluzione?
Il progetto nella mia testa è nato nel 2005, quando lavoravo al San Raffaele, un centro di riabilitazione pediatrica in via della Pisana. Avevo i ragazzi con disabilità che venivano in the hospital e alla domanda riguardante lo sport loro rispondevano:“vorremmo tanto giocare a calcio, ma non sappiamo dove andare, perché nei posti preposti non c’è spazio per la disabilità”. A quel punto mi sono chiesta se si potesse fare qualcosa. Ho buttato giù un progetto di gioco calcio e mi sono detta: “adesso andiamo a cercare dove realizzarlo!”. Sono andata alla scuola calcio Totti, ho presentato il progetto e la famiglia Totti ha lavorato alla fattibilità del programma. Così dal 2006 al 2015 sono stata la responsabile del progetto gioco calcio che avevamo realizzato. Però non mi bastava, perché, pur essendo un’oasi felice, potevano accedere solamente i ragazzi di quel bacino di utenza. Da qui nasce Integra Sport, con l’obiettivo di promuovere lo sport ai ragazzi con disabilità su vari territori, a Roma principalmente e poi a Monterotondo, aprendoci anche al mondo del basket. Quindi dal 2013 insieme con una collega psicologa, Francesca Curcio, e con l’allora direttore generale della scuola calcio Totti, Carlo Sorbara, prende vita Integra Sport, fino ad arrivare ad oggi.
Questa sua missione di solidarietà e volontariato da cosa nasce? Propensione naturale o esperienze personali?
Non si tratta di buonismo, nasce innanzitutto da un’intuizione personale, poiché in quanto psicologa e lavorando nella disabilità, ho capito che lo sport è un valore aggiunto, non soltanto per i bambini normotipi, ma anche, se non soprattutto, per i ragazzi con disabilità. Quello che mi piace del progetto è che sto bene con loro, mi diverto. Inoltre a me piace il calcio, se fossi nata nei giorni nostri avrei sicuramente provato a giocarci. Infatti all’inizio giocavo con i ragazzi. Dal momento che i “normali” non mi facevano giocare, mi sono detta: “proviamo con i disabili”. Dietro tutto, quindi, più che la passione per la disabilità c’è la passione per il calcio e soprattutto per il genere umano.
Dal punto di vista psicologico, i ragazzi con disabilità e non, come vivono lo sport integrato e condiviso?
Soprattutto per quello che riguarda il calcio che è lo sport di elezione, i ragazzi giocano, non si fanno troppi problemi. Noi abbiamo questo progetto integrato, dove chi vuole può venire a fare sport con noi e lo fa attraverso l’integrazione con i ragazzi disabili. Essi vivono il compagno senza fare troppa distinzione. In alcune situazioni i normotipi sono più scarsi dei disabili e i disabili abili sono più forti di alcuni partner che magari non hanno mai giocato a calcio. È tutto molto più semplice in realtà, i ragazzi lo percepiscono bene. Infatti si arrabbiano con il compagno disabile o normale perché sbaglia qualcosa: è tutto veramente molto simile, con tempi diversi, al mondo dei normali. L’unico aspetto che li differenzia risiede nella categoria di livello più basso: a volte i meno abili se subiscono il gol da parte degli avversari sono comunque contenti. Quando il livello è basso, è meno sentito il senso di vittoria, giocano e si divertono, mentre quelli più abili quando perdono il campionato si arrabbiano, ci rimangono male.
Lo sport, inteso come mezzo di integrazione, riesce sempre ad abbattere le discriminazioni?
Non ci si riesce quasi mai. Il progetto, quando era nato, era partito proprio perché voleva dare l’opportunità ai bambini disabili di giocare in una scuola calcio. In realtà a distanza di tempo non passa quasi mai questo concetto di integrazione. Io sono stata anche in Federazione in una commissione del settore giovanile scolastico e lo stesso processo si verifica nella scuola: il disabile c’è, dicono sia incluso, ma in realtà non è vero. Quindi è tutto molto relativo. L’unica verità è che lo sport cerca di avvicinare, di sensibilizzare anche il normotipo al fatto che il disabile possa fare sport. Poi che lo sport per i disabili sia inclusivo non ci credo fino in fondo. Quando si dice: “lo sport è per tutti”, è una falsità, poiché in realtà stiamo facendo differenze anche all’interno delle categorie disabili, difatti per quelli più abili esistono campionati, per quelli più scarsi ci sono meno proposte. C’è ancora tanto da fare, siamo andati avanti sicuramente, però non sarei così sicura nell’affermare che lo sport sia così inclusivo. È una realtà che stiamo man mano costruendo.
Visto il grande riscontro mediatico dei giochi paralimpici dello scorso settembre, pensa che la nostra società sia un po’ meno diffidente verso chi è diverso nello sport?
Sicuramente tutto questo muoversi verso la conoscenza di mondi nuovi, porta ad una apertura maggiore. Un po’ come il calcio femminile: quando l’Italia era ai mondiali non veniva considerato, poi è diventato una realtà. Ciò è successo perché si è incominciato a parlarne, ci si è accorti che esisteva ed è così che si è concretizzato. Lo stesso vale per la disabilità. Il calcio paralimpico, però, è costituito sempre da quegli atleti di élite, lo strato più basso viene visto meno e sono minori le opportunità. Sicuramente le paralimpiadi servono per dare visibilità, per parlarne e per attivarsi. Perché poi c’è l’altro grande scoglio, del quale sono molto polemica. Molto spesso i politici e gli assessori allo sport si riempiono la bocca con la parola integrazione, ma poi rimangono grosse difficoltà, dal momento che bisogna trovare gli impianti dove poter attivare i corsi ed i costi sono molti. Noi abbiamo un corso di basket, nel quale sono presenti, per la maggior parte, ragazzi con lo spettro autistico e questo comporta l’attivazione di un rapporto uno ad uno che richiede diverse risorse. Siamo un’associazione sportiva, ci avvaliamo dei volontari, ma poi abbiamo lo staff competente, per il quale questo è anche un lavoro.
In questi 10 anni la parte finanziaria ha avuto qualche agevolazione da parte delle istituzioni?
Noi ci finanziamo con gli iscritti e con il sostegno di qualche privato che ogni tanto ci fa un piccolo sponsor. La realtà è che anche le aziende adesso hanno poca disponibilità. Inoltre facciamo un paio di cene sociali l’anno, dove ricaviamo alcuni fondi. Ci alleniamo al Circolo Montecitorio, a titolo completamente gratuito, e questo ci aiuta tantissimo perché ci porta a poter non spendere il costo di un affitto di un campo. Si tratta di un grande sostegno che non viene dall’istituzione, ma da chi gestisce il circolo. La Ledesma Academy molto sensibile al tema, il sabato mattina ci permette di organizzare un corso di gioco calcio nella loro scuola, gratuitamente, proprio con l’ottica di far giocare i ragazzi più piccoli, integrandoli con i bambini della Ledesma. Il comune di Monterotondo, invece, non ci aiuta, ci fa pagare l’affitto delle palestre, che ogni anno dobbiamo lottare per avere. Le istituzioni sono molto carenti, ci aiutano più le persone sensibili che mettono a disposizione il loro tempo e i loro impianti.
Valerio Piccioni, giornalista della Gazzetta dello Sport, in una sua intervista ha ammesso che “l’idea di ridurre tutto agli atleti forti è sbagliata, lo sport non è fatto solo da chi vince”. Secondo lei lo sport da chi è fatto?
Io sono d’accordo con l’affermazione, ma fino a un certo punto. Nel senso che anche noi nella disabilità vogliamo vincere, non è che noi non siamo competitivi. Rispetto a un torneo rimane nella memoria la vittoria sia nella disabilità che nel discorso dei normotipi. Questo vuol dire passione. Poi che nello sport vince chi riesce a far giocare tutti, chi riesce a far attivare tutti, quello si. Io mi sento vincente non perché ho vinto solo una partita, ma perché sono riuscita ad attivare tre corsi di gioco calcio e due corsi di basket, pertanto sono riuscita a sensibilizzare il tema dello sport integrato. Lo sport vince quando contagia più persone a fare sport.


