Piazza Grande

Con gli Stati Uniti che sembrano ormai abbandonare i propri alleati, l’Europa si trova ad avere l’ennesima piazza gremita. E se alcune di queste portano buone notizie, altre sono più preoccupanti.

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Il 15 marzo 2025 Piazza del Popolo a Roma ha ospitato, stando alle stime ufficiali, trentamila persone. E fin qui, grandi sorprese, non ce ne sono: il centro di Roma vede spesso eventi portare questi numeri, che siano concerti o manifestazioni politiche. Eppure qualcosa di veramente iconico c’è: Michele Serra, di certo non un grande esponente politico italiano, ha chiamato a raccolta i sostenitori dell’Unione Europea in un momento in cui, come detto da Bersani anni fa durante una logorante campagna elettorale, è palese che ci sia da rimboccarsi le maniche. Stavolta il fine ultimo è cercare di fare qualcosa purché si muova la macchina europea, abbandonata dall’alleato Statunitense e quindi scoperta dal punto di vista militare a Oriente, ma anche isolata dalle politiche economiche di Trump, che ha appena presentato dei dazi pesantissimi basati sul deficit commerciale con i partner, che probabilmente riporteranno l’economia indietro in modo significativo.

Insomma, tantissima gente, molti colori politici in piazza, soprattutto per quel che riguarda le forze di opposizione, la volontà di lanciare un messaggio di unità per ricordare a tutti quanti che solo insieme si vince. Sul palco moltissimi messaggi, soprattutto dalla società civile, con membri dei partiti che hanno preferito restare lontano dal palco e presenziare, senza apporre bandiere dove effettivamente non era richiesto, se non per quelle blu con le stelle.

Inutile a dirsi, qualcuno ha dovuto trovare motivi per contestare questa iniziativa promossa dal mondo della cultura italiana ed europeista: il Movimento 5 Stelle e Potere al Popolo, infatti, hanno posto sul tavolo la questione del riarmo come campanello d’allarme per cui venire meno. La mancanza di un’oggettiva presa di posizione contraria al riarmo dell’Unione Europea ha reso inconcepibile per Giuseppe Conte l’idea di presenziare ad una manifestazione che tutt’altro aveva come orizzonte comune, ossia dimostrare che un senso di appartenenza all’Unione Europea fosse ancora presente. Agli occhi di chi scrive, sa ancor di più di beffa l’assenza dell’Avvocato del Popolo, sostenitore di una distensione dei toni con Mosca, a suo dire non così minacciosa come la si dipinge in Occidente. La storia infatti sostiene benissimo la sua teoria, dato che non vi è mai stato bisogno di preoccuparsi in passato di Capi di Stato che aggredivano i propri vicini, così come Hitler si accontentò della soluzione della questione dei Sudeti, una grandissima vittoria dell’appeasement di Chamberlain.

Ironia a parte, una delle cose di cui forse si è parlato poco è che Piazza del Popolo, dall’alto, è apparsa “grigia”: l’età media dei partecipanti, infatti, era abbastanza alta, in linea con la demografia del nostro paese, ma non di certo rassicurante nel valore di questa unità, che dovrebbe guardare al futuro.

I temi trattati, chi è passato sul palco, ma soprattutto chi era di fronte a quest’ultimo dovrebbe essere la fotografia dell’Europa Unita che vorremmo, eppure di giovani ce ne sono stati pochi. Chissà dov’erano quei ragazzi che hanno protestato contro i potenti del mondo che poco o nulla facevano nella lotta ai cambiamenti climatici, esclusi quei pochi che avranno forse presenziato all’evento che ha fatto da contraltare, voluta soprattutto da Potere al Popolo. E anche quei meno giovani, ma comunque diretti interessati, che ora sono attorno ai trent’anni, figli dell’Unione Europea, giramondo dei progetti Erasmus, ma che poi nel mondo del lavoro fanno i conti con disparità prodotte da un’Unione che poco riesce a mettere tutti sullo stesso piano per mancanze di grandi idee comunitarie. Eppure loro sapevano come manifestare, quando al governo guidato da Berlusconi sembrava interessare poco di una crisi economica senza precedenti e lo Spread tra BTP e Bund tedeschi veniva aggiornato più spesso delle previsioni del tempo.

I grandi assenti, forse, sono stati proprio quei giovani che nel sogno di un’Europa unita dovrebbero credere, perché in un mondo dove l’economia è sempre più dipendente da Cina e Stati Uniti, il ruolo del terzo polo sembra destinato ad essere ricoperto da paesi emergenti, giovani demograficamente, ricchi di potenziale ancora inespresso per ritardi nello sviluppo figli di una globalizzazione arrivata più tardi per loro.

Mentre a Roma la passione per l’Europa è stata portata in piazza dalla “Vecchia Guardia”, lo stesso non si può dire per altre manifestazioni che si sono verificate in giro per il vecchio Continente: se ne sta parlando forse troppo poco, ma un vero e proprio movimento studentesco è riuscito a portare in piazza centomila persone lo stesso sabato, dopo mesi di proteste che hanno interessato tutto il Paese. Il Governo Vucic, infatti, è da novembre 2024 che fa i conti con manifestanti stanchi di un governo definito pesantemente corrotto. Tutto è partito con il crollo di una tettoia della Stazione di Novi Sad, costruita poco tempo prima, che ha prodotto 15 morti e diversi feriti, evento che è stato preso a esempio della inadeguatezza del proprio Presidente e di tutta la classe dirigente. Nonostante un passato recente particolarmente cruento, mai nella storia contemporanea serba si era vista una tale mole di gente manifestare per le strade di Belgrado, con un corteo principale spaventoso, ma anche altri piccoli gruppi sparsi in giro per la città, con studenti arrivati a piedi da tutto il paese che hanno suonato la carica anche per altri connazionali, che hanno risposto “presente” a questa chiamata per la democrazia. Aleksander Vucic, esponente di una maggioranza populista e nazionalista al governo dal 2012, ha dovuto ammettere che vi è un’importante mole di cittadini insoddisfatta dell’operato del suo Governo, e staremo a vedere alle prossime elezioni verso dove andrà il Paese, se abbraccerà un europeismo del tutto nuovo per la Serbia o meno, ma di certo vedere chi ha davvero in mano il futuro del proprio paese scendere in piazza è sempre una buona notizia.

Lo stesso discorso vale, con le dovute differenze, per la Georgia, anch’essa poco in risalto sui principali quotidiani, ma meritevole di attenzione. In questo caso, le elezioni dello scorso ottobre hanno consegnato la guida del governo  al partito filorusso “Sogno Georgiano”, il quale ha di fatto rallentato il percorso di adesione all’Unione Europea, che poi questo sia da attribuire ad un forte nazionalismo o a miti consigli provenienti da Mosca è solo questione di cosa si vuol vedere. Di certo, stando a testimonianze provenienti da tutto il Paese, non si possono escludere brogli né intimidazioni portate in atto da fazioni violente vicine al partito vincente. Le politiche adottate contro gli “Agenti Stranieri” emanate dal Primo Ministro Kobakhidze hanno quindi di fatto posto limiti alle influenze straniere, condizione necessaria per la sicurezza interna. Tuttavia, questo è vero solamente nei confronti di coloro che agivano da occidente, con il chiaro intento di andare, appunto, a raffreddare i rapporti con Bruxelles e abbracciare l’alleato Putin, andando a dimostrare per l’ennesima volta che la Guerra Fredda, almeno in quella porzione d’Europa, non è mai veramente finita.

E se un governo viene eletto con il 54% dei voti, è facile immaginare che buona parte della società civile possa osteggiare un così importante passo indietro nell’avvicinamento all’Unione Europea in atto da anni. Decine di migliaia di persone hanno sfilato per il centro di Tbilisi, andando spesso allo scontro sia con i sostenitori del governo che con le forze armate.

La reazione del governo alle proteste è stata particolarmente dura. Il primo ministro Irakli Kobakhidze ha elogiato le forze di sicurezza per la loro risposta decisa alle manifestazioni, durante le quali sono stati utilizzati cannoni ad acqua e gas lacrimogeni contro i manifestanti. Più di 100 persone sono state arrestate, e le proteste si sono estese anche ad altre città, come a Poti sul Mar Nero.

L’influenza russa è emersa come un tema centrale nelle tensioni politiche georgiane. La sospensione dei colloqui per l’adesione all’UE da parte del partito al potere, sebbene il Cremlino abbia dichiarato di non voler interferire negli affari interni della Georgia, ha permesso di paragonare le proteste attuali alla rivoluzione pro-europea del Maidan in Ucraina del 2014, suggerendo che si tratti di tentativi occidentali di fomentare rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico. Ironico come cause ed effetti si mischino tra oriente e occidente, ma spesso la politica ci ha insegnato come sia solo un insieme di opinioni, facile da rimescolare per ottenere un risultato diverso da quello che viene fuori al tuo vicino oppositore.

La comunità internazionale ha espresso preoccupazione per la crescente repressione in Georgia. I ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia hanno condannato la violenza contro manifestanti pacifici, media e leader dell’opposizione, sottolineando il loro sostegno ai movimenti pro-democratici nel Paese. Inoltre, sono state annunciate misure per limitare i viaggi senza visto per i funzionari georgiani e sono in considerazione ulteriori azioni, sempre ovviamente per tutto quello che guarda a Ovest, mentre i contatti con la Russia hanno raggiunto livelli che non si vedevano da decenni.

Sarà molto importante vedere la tenuta del sistema democratico nel Paese, oltre che le decisioni che verranno prese alle prossime elezioni, con metà della Georgia che di certo spererà di poter continuare il processo di adesione, ammesso che non resti solo un cumulo di macerie al posto del ponte verso l’Unione Europea, mentre l’altra metà cercherà sicuramente di continuare il riavvicinamento a Mosca.

La situazione in Bulgaria, dove manifestazioni copiose stanno spingendo per interrompere il processo di adozione della moneta unica, può forse essere l’ago della bilancia in questo periodo, perché per quanto possa sembrare incredibile che l’economia più povera dell’Unione possa avere così tanto peso, di certo potrebbe cambiare pesantemente i rapporti di forza nel Parlamento, andando a foraggiare la schiera dei bastian contrari che vede l’Ungheria di Orban sempre alla ricerca di alleati all’interno dell’UE.

In questo scenario, l’unica vera speranza per i paesi dell’Unione Europea risiede nel restare uniti, accorciare le distanze, ma soprattutto portare avanti l’unica vera motivazione per cui ha senso che 27 Stati così diversi politicamente, storicamente ed economicamente debbano stare insieme, ossia la competitività.

Se qualcuno spera che l’Unione Europea possa avere nei propri valori etici il punto d’incontro, allora speriamo che si dissolva come neve al sole, perché ciò che va bene a Lisbona non andrà mai bene a Varsavia o Sofia. L’Unione Europea ha e avrà senso per i prossimi anni solo per quello che è legato al mercato unico e alla competitività economica in campo internazionale. Se guardiamo agli Stati Uniti, non è un insieme di Stati uguali tra loro, le disparità tra i 50 membri  sono a tratti incalcolabili, soprattutto dal punto di vista economico, di possibilità di crescita e di opportunità. Eppure il loro PIL è ciò su cui si regge buona parte del loro essere una Super Potenza coi fiocchi.

Tra trent’anni, il PIL dei Paesi europei non sarà degno del G7, se considerati singolarmente, mentre qualche buona possibilità che questo avvenga sarebbe da attribuire all’UE come entità unica. Certo è che non si potrebbe nemmeno provare a parlarne senza riforme essenziali, senza un periodo di stagnazione e recessione economica, dato che il centro produttivo tedesco non è più in grado di sostenere i ritmi avuti dagli anni ’90 a oggi e ci sarà bisogno di tempo per riorganizzarsi un po’ per tutti le grandi economie.

Tuttavia, come detto da Mario Draghi poco tempo fa, purché si faccia qualcosa, si salvi questo disegno di cooperazione al più presto, se si vuole contare ancora qualcosa domani. Lo chiedono molte piazze in Europa, e anche se vi sono opposizioni, vale la pena provare lo stesso.

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