Partiamo dai meri numeri: sin dal 2006, anno del grande scontro tra Prodi e Berlusconi, non vi è mai stata un’inversione di tendenza nei valori dell’affluenza. Dall’83% degli aventi diritto al voto che andarono alle urne e decretarono la vittoria della Sinistra Italiana, siamo arrivati al 63% di quasi due anni fa, quando l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni incassò la vincita della sua grande scommessa, restare fuori dalla coalizione multicolore che appoggiava il governo di Mario Draghi. Un gioco d’azzardo, quello della leader di Fratelli d’Italia, che pagò bene, complice la querelle sugli aiuti militari all’Ucraina e la sfiancante convivenza di tantissime diverse opinioni sotto un governo tecnico solido di per sé, ma coi piedi – unica parte composta da politici – d’argilla.
Non va assolutamente meglio nel caso delle elezioni europee dello scorso giugno, dove le schede scrutinate sono state meno della metà di quelle stampate e consegnate ai vari seggi. Che senso ha un’elezione dove solo il 49% degli italiani si reca a votare?
Assurdo pensare come negli anni ’50 le urne fossero prese d’assalto sin dalla prima ora, eppure basta guardare ai dati: in due diverse occasioni, ossia tra 1954 e 1958, si sfiorò il 94% degli aventi diritto al voto, numeri che nemmeno il Referendum del 1946 ebbe l’onore di raggiungere. Se vogliamo invece trovare fondamento alle teorie della mancanza di attaccamento alle istituzioni europee, basti pensare che, almeno fino a venti anni fa, l’affluenza non era mai scesa sotto il 70%, mentre nel 2019 si sono registrati valori attorno al 55%. Questo abisso di oltre venti punti percentuali può trovare una spiegazione nella percezione che si ha delle istituzioni europee, lontane anni luce seppur di stanza a Bruxelles, portatrice di politiche che nessuno capisce fino in fondo e di bacchettate sulle mani di una politica interna che, ad ogni legge di bilancio, contratta un deficit maggiore per trovare fondi per una manovra povera, giungendo poi a dire che, complici coloro che c’erano prima, tocca fare sacrifici nel nome del mantra del “ce lo chiede l’Europa”. E poco importa se l’Europa ci chiede perché noi non abbiamo saputo mantenere dei conti sani negli ultimi sessant’anni, l’importante è salvare la faccia internamente quando, per provare a costruire un ponte o salvare una compagnia di bandiera, si taglia su sanità, istruzione e pensioni. Eppure ci sarebbe il modo di fare tutto meglio, sfruttando fondi per lo sviluppo economico dei Paesi dell’Unione, ma in qualche modo tutto italiano si riesce a spendere una percentuale di quanto allocato più prossima allo zero che, ironicamente, all’affluenza alle urne dello scorso giugno.
Senza sfociare in una lezione di politica economica sui fondi europei, pensiamo un attimo al rapporto di causa effetto di cui parlavamo sopra: nelle stanze del potere a Bruxelles, i rappresentanti di 27 Paesi prendono decisioni che poi, in qualche modo, vanno ad influenzare le scelte dei governi nazionali. Per fare un esempio, possiamo tirare in ballo il ban ai motori termici per il 2035, decisione presa insieme ad un pacchetto ben più ampio che vorrebbe portare a ridurre l’impatto dell’Unione sull’emergenza climatica. Questa scelta, in un paese dove le automobili sono un mezzo di locomozione percepito – e talvolta effettivamente – necessario, porta ad una serie di politiche volte all’eliminazione delle auto più inquinanti, da sostituire in certi casi con vetture elettriche i cui prezzi sono ancora molto alti.
In Italia, e questo non per colpa dell’Unione Europea, gli stipendi sono fermi da trent’anni, la soglia di povertà accarezza le spalle a molte famiglie che una volta si potevano considerare benestanti, e una spesa di decine di migliaia di euro inizia a diventare un problema. L’effetto principale diventa quindi la percezione di un torto che viene perpetrato da Bruxelles, che chiede di spendere soldi che non vi sono. La politica, incapace di produrre moneta da quando abbiamo abbracciato l’Euro, non può permettersi nemmeno di migliorare i salari dei propri cittadini, decimati da un costo del lavoro fuori controllo e dal sommerso fiscale più alto d’Europa.
Ed ecco quindi il risultato: che senso ha andare a votare per un qualcosa che non mi dà in cambio nulla, almeno nella percezione? Un altro dato che certifica lo scoramento nei confronti di Bruxelles è legato al momento in cui il distacco è diventato palese: le prime elezioni in cui si scese al di sotto del 70% nell’affluenza è il 2009. Tali elezioni arrivarono nel primo vero momento di stress economico a cui l’economia dell’Unione è stata sottoposta, e le politiche di austerity hanno sicuramente aperto una frattura, ad oggi incolmabile. Il declino dell’affluenza ha sicuramente risentito delle ondate di crisi che hanno caratterizzato gli ultimi 15 anni, e il paese al momento è totalmente diviso su molti temi scottanti che si trovano nell’Agenda dell’Unione. Se da una parte c’è una pesante divergenza in materia di green economy, dall’altra la guerra in Ucraina e il conseguente impegno nel fornire sostegno a Kiev stanno creando scompiglio internamente, figuriamoci a livello sovranazionale. Inoltre, non dobbiamo dimenticare la percezione che si ha dell’Europa in materia di immigrazione, grandissimo cavallo di battaglia delle forze più estreme della politica italiana. Il problema è sempre legato alla percezione che si ha del fenomeno, dato che è stato dimostrato a più riprese come l’Italia sia solo un punto di passaggio e che vi sia un maggior assorbimento al di là delle Alpi. Tuttavia, gli sbarchi in Sicilia e il continuo braccio di ferro tra Italia e Francia in quel di Ventimiglia ci fanno percepire abbandonati dall’Europa, che sembra fare gli interessi di tutti meno che l’Italia in questo campo.
Questa percezione si va ad acuire ancora di più quando, nello scacchiere europeo, l’Italia non si vede riconoscere il suo ruolo, non avendo ricevuto nessun ruolo di spicco con queste elezioni. In questo caso, si può trovare una motivazione nell’opposizione perpetrata da Roma nei confronti della riconferma di Von der Leyen a capo del Parlamento Europeo.
Una volta trovate queste mezze verità, che comunque bastano come giustificazioni del poco amore dimostrato a Bruxelles, spostiamo l’attenzione sul nostro paese: negli altri appuntamenti elettorali, come già detto, l’affluenza soffre in maniera evidente. Due anni fa, Giorgia Meloni ha vinto personalmente una battaglia a cui lei stessa guardava da tantissimo tempo. Il problema è che questa battaglia è stata giocata tra eserciti elettorali mai così tanto risicati prima: basare un governo sulle preferenze di sette milioni di elettori non è sbagliato, il problema però viene a galla quando si pensa che questi siano meno del 20% degli aventi diritto. Non si vuole dire che questo governo manchi di fondamento democratico, anzi, è espressione della forma più democratica di tutte, e di certo non è colpa del Presidente Meloni se l’Italia è un paese di navigatori ma non di elettori. Tuttavia, un terzo dell’elettorato ha fatto scegliere ad altri chi sarebbe salito al Quirinale per giurare sulla Costituzione, che definisce il voto come uno dei doveri del cittadino italiano.
Anche qui, le colpe sono di tanti ma nessuno se le prende. Abbiamo visto governi cadere ad ogni legislatura sin da quando siamo entrati in questo millennio, talvolta un rimpasto ha salvato il paese dallo scioglimento delle Camere, altre volte è stato chiamato un pool di esperti e tecnici per salvare l’economia e scongiurare di piangere come Atene. Abbiamo visto entrare e uscire una parvenza di governo composto da “Sette Saggi”, e anche la caduta di un governo tecnico, quello presieduto da Mario Draghi, per colpa di un partito contrario ad una guerra che nemmeno stavamo combattendo, sebbene in Italia una buona parte del PIL si regga da sempre sulla produzione di armamenti.
In un paese dove cadono governi ogni volta che soffia il vento, anche quando questi sono tecnici, come si può amare la politica?
Quando mi trovavo al liceo, la working class era in pieno fermento contro il governo allora in carica, e ancora in parte cercava conforto nella mobilitazione sindacale, nella politica di sinistra, e lo stesso sentimento, almeno nel caso di chi frequentava come me il liceo Mamiani di Roma, ci portava a manifestare con loro nelle piazze, per poi passare anche ad osteggiare una riforma della scuola sulla carta della Sinistra.
Sono passati circa dieci anni, e quel liceo che una volta era schierato attivamente in politica, oggi non lo è più. Progresso, mi verrebbe da pensare, le scuole sono sicuramente dei luoghi di aggregazione, ma la politica per me dovrebbe rimanerne ai margini, o entrare senza disturbare con occupazioni. Il problema è che la vita politica italiana è sempre passata per scuole, piazze, e soprattutto circoli di Partito, una volta presenti in ogni circoscrizione, oggi ormai ridotti a soffitte o cantine, e sono vuoti, vetusti, mandati avanti da gente che ormai è più vicina alla pensione che al liceo. Si è creato ora più che mai un allontanamento dei giovani dalla politica, sia di destra che di sinistra, che li porta a non percepire nessun attaccamento a chi prende le decisioni, nel nome del “non cambia nulla”. E poco importa ai Partiti più rilevanti, che riescono comunque ad attrarre nuove leve con scuole di politica costose e quindi irraggiungibili ai più.
Questo declino dell’interesse per la politica si va anche ad arricchire di altre sfaccettature, prima fra tutte la fine degli ideologismi più forti che hanno portato avanti il dibattito politico, malgrado la Democrazia Cristiana: comunismo e fascismo sono due vecchie glorie che non esistono più, se non in qualche nostalgico che idolatra un qualcosa che non ha certamente nemmeno visto troppo da vicino. Gli eredi di queste due scuole di pensiero, però sono di sangue più puro solo a destra, avendo in qualche modo ancora delle evidenti presenze nei partiti che ne sono diventate espressione nelle ultime legislature. La sinistra di oggi, malgrado i tentativi, rimane lontanissima parente di quella che mobilitava le fabbriche, avendo sposato cause più moderne (vedasi l’impegno sacrosanto per i diritti LGBTQ+) in favore della rivoluzione guidata dalle classi operaie. E questo lo si vede benissimo dalle circoscrizioni in cui ottiene risultati migliori, sempre più vicini al centro che alle periferie.
Chi non fa parte delle classi quantomeno benestanti, ad oggi, sceglie tra due alternative quando va a votare: farlo guardando a destra, oppure non farlo proprio. E presto, come ormai è scritto nei freddi numeri della statistica, a vincere saranno quelli che faranno propria la seconda via.