“Ogni epoca ha la sua malattia, alla quale risponde un’altra (ma è probabilmente la stessa) nel campo morale”. In un lucido passaggio di Scorciatoie e raccontini (Mondadori 1946), Umberto Saba, tra i più grandi autori italiani del Novecento, mette a confronto due malattie e due epoche, con un audace e affascinante parallelismo. Per l’autore, la tubercolosi incarna il romanticismo: “L’Ottocento ebbe la tubercolosi e gli sdilinquimenti sentimentali” ; e soprattutto il cancro incarna il fascismo: “Tutto il processo del fascismo – manifestarsi della sua vera natura quando è già tardi per un efficace intervento chirurgico; sua impossibilità di morire se non assieme alla vittima alla quale si è abbarbicato; tendenza a riprodursi in luoghi lontani dalla sua prima sede; disperate sofferenze che genera in quelli che ne sono colpiti; guasti profondi che si rivelano all’esame necroscopico dei corpi (o paesi) sui quali abbia totalitariamente imperato – tutto, dico, il suo processo ha sorprendenti somiglianze con quello del cancro.” E ancora: “Azzardo l’ipotesi che il cancro (malattia degli anziani) abbia le sue radici psichiche in un tentativo sbagliato dell’organismo per ringiovanire. La formazione di un neoplasma potrebbe significare il desiderio di rifarsi un nuovo organo, p. es. un nuovo stomaco. […] Ebbene: che cosa è stata in fondo l’adesione al fascismo – in Italia e altrove – se non un tentativo sbagliato della borghesia di rifarsi una vita nuova, di ringiovanire?”
Ora, cercando di evitare qualsiasi avventuroso e ascientifico slancio letterario, proviamo a prolungare questa striscia di malattie incarnate di ancora un’ottantina di anni, ponendoci una domanda ben precisa: il Covid è rappresentativo della nostra epoca? La questione può sembrare a un primo sguardo una forzatura, un esercizio di stile per collegare arbitrariamente due argomenti divergenti. Eppure basta poco, poco davvero, per accorgersi della grande aderenza e sovrapponibilità dei due discorsi, della loro importante connessione sia simbolica che effettiva. Volendo partire da una base concreta, scientifica, ricordiamo come i primi focolai di Covid in Italia siano avvenuti in luoghi dall’alto inquinamento atmosferico: la Lombardia, regione più inquinata d’Italia, fu la prima colpita, con il Paziente Uno nel comune di Codogno. In particolare, lo studio nazionale condotto da EpiCovAir, ha dimostrato come l’incidenza di Covid-19 aumentasse dello 0,3 per cento, 0,3 per cento e 0,9 per cento ad ogni incremento di 1 microgrammo per metro cubo d’aria di PM2,5, PM10 e NO2, rispettivamente. Si tratta di un fattore collegato in modo decisivo ai grandi temi ambientali contemporanei, ormai sotto gli occhi non solo della comunità scientifica ma dell’intera cittadinanza (per approfondire l’argomento rimando all’intervista a Riccardo Luna sul nostro sito https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjQrMuxlI6KAxUhgf0HHcXQCRAQFnoECBcQAQ&url=https%3A%2F%2Fgiano.blog%2Fclima-e-societa-tra-passato-presente-e-futuro-intervista-a-riccardo-luna%2F&usg=AOvVaw3unuQWhaSE4CUIMTMS63kG&opi=89978449) e i cui effetti influenzano la vita quotidiana presente e futura di tutti noi. Un altro aspetto di stampo contemporaneo e inevitabile è stato la propagazione globale della malattia, che ha viaggiato con velocità mai viste prima verso tutti i paesi del mondo, salvo rarissime eccezioni.
Da questo punto di vista la pandemia Covid è stata probabilmente la più diffusa di sempre, più della peste nera del quattordicesimo secolo o della febbre gialla di inizio Novecento. Si è dovuto ciò all’interconnessione di un mercato dalle frontiere sempre più labili, economicamente così come a livello sociale; un mondo dalle possibilità di movimento di capitale umano e materiale praticamente infinite, in cui un pesce fresco può arrivare dal mar di Giappone a Milano in meno di ventiquattro ore e una persona fare il giro completo del pianeta in poche giornate; un contesto globale dalla densità demografica cresciuta esponenzialmente nell’ultimo secolo e concentrata nelle grandi metropoli e nei loro dintorni. La diffusione del Covid e le sue conseguenze sono perfettamente aderenti allo spirito della contemporaneità, delle “Globalopoli”, intese come città e nuclei urbani interconnessi che tracimano i confini municipali classici; estesissimi luoghi con nuclei abitativi sparsi e connessi dagli spostamenti a media e alta velocità; spazi reticolari fluidi che rispecchiano lo sviluppo e le esigenze del mondo del lavoro e del mercato più in generale.
Parliamo di una malattia che, innanzitutto, si contrae attraverso la vicinanza fisica tra individui, inevitabile nelle grandi città anche laddove non si cerchi il contatto, basti pensare che a Milano, dove la densità abitativa è di circa 7500 abitanti per kmq, ad ogni cittadino corrispondono circa 133 mq. Pur attuando questa divisione pura e schematica dello spazio (evidentemente non aderente alla realtà vissuta), a Milano, ad ogni cittadino basterebbe percorrere lo spazio di un trilocale per imbattersi in un’altra persona. E sottraendo a questo calcolo le varie strade, aree verdi, spazi pubblici e in generale zone non residenziali, la superficie abitabile percorribile senza scontrarsi con uno sconosciuto sarebbe drasticamente minore.
A questo inevitabile contatto accompagna e segue, nel Covid come in generale nella vita contemporanea, l’isolamento; fisico ma anche psicologico, attraverso il paradosso di un contesto affollato, brulicante di vita e al tempo stesso estraneo, in cui la solitudine sembra inscalfibile. La pandemia ha rappresentato perfettamente lo schema relazionale odierno: digitale, passivo, deumanizzato, distante, continuo e sempre a portata di mano e proprio per questo depotenziato. Il sospetto e la competizione costanti verso il prossimo sono mezzi di difesa-offesa imperanti della nostra quotidianità che nel Covid hanno trovato una cassa di risonanza. Il vicino, l’altro, è sempre potenzialmente nemico e pericoloso; anche per questo nel paradigma del ventunesimo secolo l’apertura emotiva assume spesso le fattezze di chimera; non è mai totale, non ci si mostra mai completamente per paura di esporsi. Così le case diventano gusci, i volti si mascherano, le proprie peculiarità si mischiano, si confondono tra la volontà di essere e quella di apparire, e l’unica certezza diventa il buio della propria cameretta, il grigio a cui ci si è abituati e a cui è difficile rinunciare. La stanchezza, la fatica che indebolisce le ossa e annebbia la mente, l’ansia che mozza il fiato, sono gli strascichi delle due malattie, il Covid e la Globalopoli.
Il Covid è perfettamente incastonato nel nostro tempo ed ora che non se ne parla quasi più pare evidente che il suo “sparire” da ogni discorso sia l’immagine perfetta del trauma nel ventunesimo secolo. La pandemia ha cambiato tutti, nel profondo, eppure nei discorsi viene spesso citata come una fase distante, mentalmente e temporalmente; un periodo il cui ricordo è stato gettato nella gigantesca voragine dell’inconscio, personale e collettivo. Superficialmente è stato dimenticato, sommerso dalla velocità illimitata della Globalopoli e dal passivo e sfrenato accumulo, ma nessun trauma può essere accartocciato e buttato in luoghi inesplorati come un brutto schizzo. Il tempo non guarisce, il tempo aumenta gli strati del proprio essere tra cui frugare e complica la necessaria riesumazione di ciò che si è vissuto.
Il Covid siamo noi: dalla velocità all’isolamento, dalla passività al trauma sepolto.


