Clima e società tra passato, presente e futuro. Intervista a Riccardo Luna.

Un’analisi storica della questione ambientale e del rapporto tra le generazioni in conflitto. Uno sguardo a ciò che ha portato il pianeta nella disastrosa situazione attuale, come lo si sta affrontando e che prospettive abbiamo.

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L’umanità traccheggia di fronte alla scatola cinese della questione ambientale da decenni. I Grandi della Terra – anzi per correttezza, della Società – riferiscono la stessa risposta di un adolescente al genitore che insiste affinché metta in ordine la propria camera: “Domani lo faccio, promesso”. Con l’aggravante dell’illusione di fedeltà, che è dinamica ben assodata nella storia del rapporto governo-cittadino, al pari di quello parentale. Il problema a monte è questa inversione dei ruoli: i genitori dovrebbero essere loro. 

Se il maltrattamento del pianeta affonda le radici nella seconda metà dell’Ottocento, in coincidenza con la seconda rivoluzione industriale, la realizzazione del problema e la comparsa di una consistente opposizione alla prospettiva ottimistico-progressista, risale agli anni Settanta del secolo scorso. La crisi petrolifera del ‘73 apre gli occhi sul carattere limitato delle risorse, l’uomo si desta dall’illusione di aver trovato la chiave di un Eden economico. In questi anni alzano la voce i movimenti ambientalisti, sovrapposti all’onda della critica alla civiltà consumista che aveva toccato il suo apice nel Sessantotto. Negli anni successivi la questione ambientale scala posizioni nelle agende dei governi, cominciano e si intensificano i dibattiti sulla riduzione dei consumi e sulla ricerca di fonti alternative, provocando divisioni come nel caso dell’energia nucleare. Verso la fine degli anni ‘80 si consolida il bipolarismo nel dibattito sull’ambiente, che vede in un angolo la mobilitazione ambientalista, e nell’altro i paesi produttori di petrolio guidati da Stati Uniti e Arabia Saudita. Il sentimento ambientalista è in ascesa, tanto che in Italia nel 1987 i Verdi entrano per la prima volta a fare parte del Parlamento, portando la causa a livello politico. Nel corso del decennio successivo vengono scoperti nuovi giacimenti petroliferi (come il Canale d’Otranto nel 1993), e le grandi potenze ne approfittano per alleviare il timore nell’opinione pubblica riguardo l’esaurimento delle risorse, evitando perdite ingenti. Esemplare la non adesione degli Stati Uniti al Protocollo di Kyoto (1997), che obbliga i paesi firmatari ad una riduzione delle emissioni di gas serra. Subisce gli effetti di questa situazione la ricerca delle fonti alternative, su tutte la transizione delle automobili all’energia elettrica. Il processo evolutivo e l’affermazione di questa nuova proposta scientifica vengono dilatati nel tempo, tanto che solo con il nuovo millennio si intravedono i primi risultati, fino ai giorni d’oggi nei quali si assiste ad una crescente diffusione. Nel 2015 una tappa fondamentale la segna l’accordo di Parigi, con il quale si stabilisce l’obiettivo del mantenimento del riscaldamento globale al di sotto degli 1.5°C in più rispetto ai livelli pre-industriali. Il coinvolgimento di massa cresce a dismisura quando, nel 2018, Greta Thunberg riesce ad ottenere l’attenzione dell’opinione pubblica globale grazie alle sue azioni dimostrative che restituiscono l’idea di catastrofe “imminente” in cui si sta riversando il pianeta. Il fenomeno è scemato negli ultimi anni, e ad oggi l’interesse degli Stati e delle organizzazioni internazionali per la questione rimane circoscritto a pochi interventi, non determinanti per invertire la rotta drammatica che l’essere umano ha intrapreso. 

Dopo questa breve sintesi della storia della questione climatica, puntiamo insieme gli occhi sul presente e sul futuro. Ho avuto il piacere di confrontarmi con Riccardo Luna, giornalista di Repubblica e direttore del sito Green&Blue, indagando il rapporto tra le generazioni che si scontrano, le ragioni retrostanti le rappresaglie dell’attivismo ambientale e le difficoltà che incontra chi sposa una causa che avvolge tutta la popolazione mondiale, ma riscontra paradossalmente poco interesse.  

Per iniziare gli chiedo degli interventi da parte dei leader mondiali, sottolineando come ad ogni occasione vengano rinnovati gli impegni senza però poi darne un’applicazione pratica: “Il termometro dell’interesse per la questione ambientale è l’accordo che è stato preso alla scorsa COP28 a Dubai, dove il centro del documento finale, lodato e votato da quasi tutti i paesi, era l’impegno al transition away dai combustibili fossili. Il problema è che questa transizione non solo non è avvenuta, non è neanche cominciata. Produciamo più combustibili fossili di quanti ne abbiamo mai prodotti, continuiamo ad aprire nuovi giacimenti e investire in nuove infrastrutture. Si tratta di un accordo che non prevede alcuna sanzione e nessun vero impegno di tempo. È un accordo di princìpi: dicono di volere il transition away, ma in questo senso lo vogliono anche i petrolieri, i quali – quando il petrolio sarà esaurito – investiranno in energie rinnovabili, come già stanno facendo gli Emirati Arabi”. Eppure, in quanto ad alternative energetiche rinnovabili la situazione è florida: “Non abbiamo mai avuto tante energie rinnovabili come in questo momento. Stanno crescendo e sono competitive con i combustibili fossili, dal punto di vista del costo. Sicuramente c’è una fortissima resistenza da parte delle aziende del petrolio, del carbone e del gas, come anche dagli stessi governi, che in gran parte sono in combutta con queste. Pensa al rapporto strettissimo che c’è nei paesi produttori tra chi governa e chi investe in questo settore. Perché dovrebbero rinunciare alla ricchezza? Perché il mondo va in malora? Non lo vedono, non se ne curano. Qualche giorno fa è venuto a Roma Al Gore (ex vicepresidente USA sotto Clinton, ndr) il quale ci ha ribadito che i dati sono significativi. Per dirti, in California l’energia che viene usata è rinnovabile. Si comincia a vedere la transizione in certi posti, e bisogna spingere perché questo processo acceleri politicamente. L’anno prossimo si terrà una COP molto importante in Brasile, un paese che con Lula spinge moltissimo sulla transizione, nonostante abbia interessi petroliferi. Si celebreranno anche i dieci anni dell’accordo di Parigi del 2015. È lì che si spera potremo ottenere l’accelerazione alla quale tutti puntiamo”. 

A questo punto gli propongo un paragone tra l’attivismo ambientale odierno e il movimento del Sessantotto, entrambi manifestazioni di una cesura generazionale, della volontà di mutare i connotati della società. Luna mi fa notare una differenza sostanziale: “Nel ‘68 i giovani erano la maggioranza e la rivolta era maggioritaria, in grado di spostare gli equilibri politici. I giovani avevano un enorme peso. Oggi per ragioni demografiche i giovani sono in minoranza, la popolazione delle democrazie occidentali è costituita per lo più da over 65. Sono paesi fondamentalmente di pensionati e anziani, e questo ha un impatto non banale. In secondo luogo, il fenomeno dell’attivismo ambientale è rinato con Greta Thunberg che ha portato milioni di persone nelle piazze di tutto il mondo. Quel fenomeno oggi è in calo, come se ci fosse la bassa marea. Lo indicano tutti i sondaggi, le piazze, gli scioperi del clima. Ci sono gli attivisti climatici, ma non si portano più i ragazzi nelle piazze. Tanto che una parte del movimento si è radicalizzata. Per risolvere il cambiamento climatico devi contrastare il capitalismo, quindi devi cambiare la società, il modo di produrre beni e servizi, adottare un’economia circolare. Ridurre le emissioni comporta un mutamento di vita. Il cambio di società di cui si parlava nel Sessantotto è esattamente quello che ci sarebbe dentro la questione ambientale, perché essa è una questione sociale, di ingiustizia sociale. Sono i poveri ad essere colpiti di più dalla situazione. Finché il cambiamento climatico non verrà percepito come una questione economica e sociale, non riuscirà ad appassionare i giovani come dovrebbe. Una volta, in un’udienza, Papa Francesco mi disse che si parla sempre della fatica di questa sfida che abbiamo davanti, mai della sua bellezza”. Mi intrometto: forse è proprio la complessità del problema che scoraggia la maggior parte dei giovani? “A me interessa quello che arriva dai ragazzi, perché non si è mai visto uno che cambia il mondo a ottant’anni. Rifuggo dallo stereotipo dell’espressione “i giovani”, perché ne esistono diversi tipi. Qualche tempo fa ho richiesto un’indagine di mercato per capire chi sono i giovani e che consumi culturali hanno. L’azienda a cui mi sono affidato ha diviso il campione dei giovani in quattro cluster: i NEET, quelli indifferenti e depressi; i superficiali, che pensano solo a divertirsi; quelli che vogliono solo fare soldi; infine, quelli che si impegnano, di qualunque cosa si tratti, e che vogliono cambiare il mondo in meglio. Queste classi sono di dimensioni analoghe, intorno al 25% con delle differenze minime. Per questo quando si parla di “giovani” io mentalmente mi figuro queste categorie e cerco di capire chi ho davanti”. 

La frattura fra gli attivisti e i governanti trova la sua principale manifestazione nelle azioni dimostrative che hanno per obiettivi opere d’arte e monumenti. Queste operazioni hanno dato luogo alla nuova – rispetto alla storia della lingua italiana, s’intende – definizione di “ecovandalo”. Sulla Treccani, vandalo è chi “senza alcuna motivazione […], per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte.  La motivazione c’è, sacrosanta e che riguarda tutti. Manca invece la devastazione, in quanto – mi fa notare Luna – essi “utilizzano vernici lavabili e naturali, quando imbrattano i dipinti lo fanno perché questi sono protetti da una lastra di vetro”. Allora, che profilo hanno questi “temibili” attivisti? “Non sono vandali, in primis. Non sono terroristi, non provocano terrore. Manifestano un disagio. Lo manifestano nella maniera giusta? Non lo so, ma so che il disagio è giusto, viene da cause giuste. È tutta la scienza che dichiara l’esistenza di un problema enorme. Sono persone che reagiscono a quello che dice la scienza, dunque leggono, si informano e le danno credito. Già solo per questo io li ascolterei. Dopodiché, potrebbe non essere la strada migliore per convincere l’opinione pubblica che dobbiamo cambiare strada, però non sono né vandali, né terroristi. Tra l’altro io scrissi al Ministro della Cultura Sangiuliano (Repubblica, 5 marzo 2024) che tra i grandi danni del cambiamento climatico ci sono quelli che procura ai monumenti. Tutte le volte che si verifica un’alluvione, grande caldo o inquinamento, il patrimonio artistico e culturale viene danneggiato. Il Ministro della Cultura dovrebbe essere il primo ad entrare in campo per difendere il nostro patrimonio, non schierarsi contro gli attivisti chiedendo “pene esemplari”, che non significa nulla. Probabilmente questi ragazzi non trovano una società ricettiva. Ripeto, forse è sbagliato (enfatizza forse, ndr). Ma stanno provando ad avvisarci che c’è un pericolo imminente”.

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