Bialetti, simbolo del caffè italiano nel mondo sin dagli anni Trenta, ha conquistato generazioni con la Moka, un oggetto semplice e geniale che ha portato nelle case italiane il rito del caffè domestico. L’azienda nata dall’intuizione di Alfonso Bialetti è stata l’ideatrice non solo di uno strumento, ma un emblema di design e cultura che ha incarnato, per decenni, l’identità produttiva e affettiva del Made in Italy. Un simbolo che ha portato tutto il mondo a immaginare l’Italia anche attraverso le sue iconiche forme, un fortissimo richiamo alla tradizione dell’espresso che in ogni casa italiana trovava posto su una mensola in cucina o su un fornello, pronta all’uso se non già piena di caffè nero e bollente.
Eppure, come accaduto a molte imprese storiche, l’evoluzione dei consumi ha posto Bialetti davanti a sfide inedite, perché la tradizione non è niente di fronte alla vita frenetica e alla moda. Negli ultimi tre lustri il mercato ha premiato la rapidità e la tecnologia, spingendo i consumatori verso le macchine da caffè a capsule. Marchi come Nespresso, Lavazza e altre multinazionali hanno intercettato questa domanda, producendo un prodotto ben più personalizzabile grazie a gusti diversi e che fino a poco tempo prima avrebbero scatenato quantomeno stupore. Chi mai avrebbe pensato di bere un caffè aromatizzato al cocco, ad esempio? A questo, aggiungiamoci la grande trovata di un prodotto che prometteva, in una manciata di secondi, un’esperienza da bar a prezzo più basso, con la “cremina” che nessuno avrebbe ottenuto ovviamente con la moka. Il tutto – e da pigro di prima categoria penso possa essere stato il motore delle decisioni di milioni di utenti – senza nemmeno rischiare di sporcare mezza cucina riempiendo il serbatoio di polvere di caffè.
Bialetti, dal canto suo, ha faticato a tenere il passo. L’azienda è entrata tardi nel settore, senza riuscire a imporre un proprio sistema competitivo. La dipendenza quasi esclusiva dalla moka tradizionale, pur ancora amata da una parte del pubblico, ha limitato la capacità di adattamento. Parallelamente, l’indebitamento crescente e la crisi della distribuzione hanno eroso le fondamenta economiche del gruppo, portandolo a un passo dalla paralisi. La pandemia ha aggravato il quadro, con la chiusura temporanea dei punti vendita e forti ritardi nella catena logistica.
Il 2024 ha però segnato una prima inversione di tendenza. I ricavi sono saliti a 149,5 milioni di euro, con un incremento del 5,9% rispetto all’anno precedente. L’EBITDA ha segnato una crescita del 20% dei margini, mentre il risultato operativo si è attestato a 18,1 milioni. Il bilancio, pur ancora negativo, ha registrato una perdita contenuta a 1,1 milioni di euro, dimezzandosi rispetto al 2023. Alcuni segmenti si sono distinti per la crescita: le vendite di moka e coffee maker hanno segnato un +8,5%, mentre il comparto caffè e capsule ha registrato un +5,1%, segnale che le strategie di ampliamento del prodotto iniziano a dare frutti. E finalmente, l’icona pop del rituale italiano per antonomasia ha ricominciato a volare oltre confine, con una crescita del 12 per cento dovuta a buoni riscontri in Europa e Nord America, quando tuttavia anche il mercato italiano ha mantenuto una crescita moderata.
Nonostante i segnali positivi, resta il nodo strutturale dell’indebitamento. A fine 2024, il debito finanziario netto si attestava a 114,6 milioni di euro, il patrimonio netto consolidato rimane negativo per circa 20 milioni, e anche dal punto di vista della revisione contabile non vi sono state ottime notizie, con Kpmg che ha deciso di non esprimersi sull’analisi del bilancio del gruppo a inizio maggio, preoccupati dalla continuità aziendale. Infatti, prima del 31 luglio, la Società dovrà ripianare una larga parte dei debiti ridiscussi nel 2021, quando è cominciato il processo di ristrutturazione del debito.
La domanda a questo punto sorge spontanea: come può la società arrivare, dopo due rinvii occorsi tra novembre e aprile, a risanare questo debito? La risposta è a Est, precisamente a Hong Kong.
In questo contesto incerto, infatti, sull’azienda bresciana si è concentrata l’attenzione di NUO Capital, fondo d’investimento controllato dalla famiglia Pao Cheng di Hong Kong. Ad aprile, infatti, NUO ha presentato un’offerta per l’acquisizione del 78,6% delle azioni per un controvalore di 53 milioni di euro, accompagnata da un’offerta pubblica d’acquisto per il delisting da Borsa Italiana. NUO ha annunciato un investimento complessivo di 49,5 milioni di euro in aumento di capitale, oltre a nuove linee di credito fino a 75 milioni per il rifinanziamento del debito.
Tutte mosse che sanno di rinascita, almeno sulla carta, ma che hanno portato molti a storcere il naso, anche perché l’ingresso di un nuovo azionista straniero dall’Asia solitamente non fa gioire, anche a causa di esperienze negative come quella di Arcelor Mittal e l’acquisizione dell’Ilva di Taranto. Nonostante ciò, buone speranze sono date sia dal fatto che il CEO Egidio Cozzi resterà in carica, a garanzia della continuità operativa, sia da quei numeri in crescita all’estero, che danno una buona idea del potenziale che potrebbe esprimere un marchio così iconico. E quindi il dibattito apertosi si sposta tra chi sostiene che sarà un’occasione per salvare e rilanciare un brand storico, dopo anni di difficoltà, mentre altri parlano dell’ennesimo capitolo di una narrazione già vista: marchi italiani ceduti a investitori esteri, con il rischio di delocalizzazioni, perdita di know-how e snaturamento dell’identità industriale.
Da Pirelli a Candy, da Indesit a Ferretti, la lista delle imprese italiane acquisite da capitali stranieri si allunga ogni anno, con conseguenze ancora incerte sull’equilibrio tra globalizzazione e tutela del Made in Italy. E se alcune di queste società continuano a crescere e a farsi spazio nel proprio settore, altre vedono imponenti cambiamenti nella loro struttura e nel posizionamento sul mercato.
Tornando a Bialetti, nel piano industriale 2024–2027 presentato da NUO Capital si prevede una razionalizzazione della struttura produttiva e il rafforzamento del marchio a livello internazionale, condizione necessaria perché non si vive di solo mercato interno. L’obiettivo dichiarato è quello di espandere la presenza nei mercati asiatici e nordamericani, sviluppare nuovi prodotti, investimenti importanti nell’e-commerce e riposizionare il marchio su fasce di consumo più elevate. Resta centrale il mantenimento del sito produttivo di Omegna, ma il linguaggio usato lascia aperte ipotesi di riorganizzazione che potrebbero avere effetti anche occupazionali. La volontà di conservare l’“italianità” del marchio è stata ribadita da NUO, ma sarà la gestione concreta a dimostrare quanto peseranno davvero identità e territorio nelle scelte future.
Il caso Bialetti offre uno spunto per riflettere su cosa significhi oggi Made in Italy. È solo una questione di origine geografica o riguarda anche filiere, cultura del prodotto, capitale umano e continuità storica? E quanto possono coesistere le esigenze del mercato globale con la salvaguardia di valori locali? La sfida per Bialetti sarà quella di reinventarsi, rimanendo fedele a sé stessa. La moka, simbolo di una tradizione lenta e domestica, sopravvive oggi in un mondo veloce e iperconnesso. La domanda è se riuscirà a farsi ancora interprete del tempo che cambia, senza diventare solo un ricordo lucidato da nostalgie e operazioni di marketing.
Nel caffè, come nel business, ciò che conta è l’equilibrio: tra passato e futuro, tra identità e innovazione, tra radici e ambizioni globali. Bialetti ha l’occasione di dimostrare che si può rinascere senza dimenticare da dove si è partiti, o quantomeno restare in vita e dire la propria nel settore che ti ha visto riformarlo in maniera impensabile.
E nella speranza che questo sia un nuovo capitolo di una storia ancora lunga, costellata di prodotti di qualità, mi godo un espresso della loro nuova macchina a cialde, arrivata in casa mia da un paio di settimane. Non so se sono stato ottimista e se magari avrò un prodotto di un marchio che sparirà presto, ma so che di certo la loro moka – adesso confinata al rituale del caffè della domenica – non mi abbandonerà mai.